05 Nov 2021

Responsabilità estesa del produttore e consorzi di filiera: lascia o raddoppia?

Nuove soluzioni e nuove filiere per l’economia circolare

Intervista ad Antonio Massarutto

Circa un quarto di secolo fa veniva istituito il principio di “responsabilità estesa del produttore”. Di ciò che diventa rifiuto, il produttore assume la responsabilità, e viene caricato dell’obbligo di garantirne la corretta gestione e raggiungere traguardi di recupero e riciclo via via più ambiziosi. Ogni paese procede a modo suo, chi usando il bastone, chi la carota, chi le due cose insieme.

Una rivoluzione che molti all’epoca non capirono, a cominciare dagli economisti: si metteva l’accento sugli obiettivi quantitativi di riciclo imposti arbitrariamente, si considerava il contributo a carico delle aziende come l’ennesimo balzello. E che invece oggi possiamo apprezzare come la grande innovazione organizzativa, che ha permesso di raggiungere traguardi prima impensabili, a costi sorprendentemente limitati per il sistema Paese nel suo insieme.

Ricordo i tempi in cui preparavo la mia tesi di laurea sulla gestione dei rifiuti, era la fine degli anni Ottanta. A quel tempo solo pochi visionari immaginavano che il riciclo avrebbe mai potuto diventare un elemento centrale del sistema di gestione dei rifiuti. La raccolta differenziata si faceva soprattutto per compiacere qualche assessore dei verdi e per dare una patina di ambientalismo, ma senza crederci fino in fondo. Gli operatori erano scettici sulla possibilità che il riciclo riuscisse ad incidere oltre il 5-10%, e puntavano invece sugli impianti di trattamento “end-of-pipe” per chiudere il ciclo. I rifiuti da smaltire erano considerati alla stregua di un “fabbisogno” – un dato esogeno.

Da allora se ne è fatta di strada. Oggi il recepimento del “pacchetto economia circolare” (d.lgs. 116/2020) rappresenta l’occasione per un ulteriore salto di qualità e una modernizzazione del sistema. Per diversi motivi.

Il primo, ma forse il meno importante e innovativo, è rappresentato dall’innalzamento dell’asticella per i sistemi già esistenti – il legno, per la verità, non solo non vede incrementare la sua quota-obiettivo, ma la vede addirittura ridurre dal 35 al 30%, obiettivo che nel nostro paese è già abbondantemente superato. Soffermandoci solo sui traguardi più impegnativi: riduzione della destinazione dei rifiuti urbani a di- scarica al 10% (siamo ancora sopra il 20%); riciclo dei RU pari ad almeno il 65% (siamo intorno al 50%); riciclo della plastica del 55% (siamo oltre 10 punti indietro).

Il secondo riguarda gli aspetti finanziari. Seguendo l’esempio dei paesi nordeuropei, la direttiva chiede di allineare il principio che vuole sia posto in capo al produttore l’intero onere economico della raccolta differenziata e della preparazione per il riciclo.

In Italia, questo obiettivo è piuttosto lontano, poiché il sistema si è organizzato secondo un principio di responsabilità condivisa, che addossa al produttore solo il costo differenziale (e non il costo pieno) del riciclo. In altri termini, il sistema collettivo di responsabilità estesa copre – all’incirca – il maggiore costo che occorre sostenere per valorizzare il rifiuto, rispetto a quello che si sosterrebbe per smaltirlo, mentre il “costo evitato” resta a carico del servizio pubblico (e quindi del cittadino). C’è poi un evidente “sussidio incrociato” a carico degli imballaggi secondari e terziari, quelli prodotti da imprese e distributori, che compensano con la loro migliore qualità e semplicità di raccolta il maggiore costo altrimenti necessario.

È difficile fare stime. Oggi il sistema Conai costa alle imprese circa 600 M€ l’anno. Queste entrate, insieme ai proventi ottenuti vendendo i materiali riciclati, coprono i corrispettivi che, in base all’accordo Anci-Conai, vengono pagati ai comuni per i materiali conferiti, più i costi di preparazione per il recupero. Complessivamente, i costi per la raccolta differenziata e i trattamenti per il recupero ammontano a 2,5 B€/anno, ma questi comprendono anche costi che non c’entrano nulla con gli imballaggi, in particolare tutti i costi della raccolta e del trattamento del “biowaste” ma anche tutti i servizi selettivi – dagli ingombranti ai Raee.

Un recente studio di Ref Ricerche stima il livello di copertura del costo intorno al 50% del totale o meno: ancora piuttosto lontano dal traguardo, né si può semplicemente pensare di raddoppiare il contributo Conai, già oggi abbondantemente evaso. Occorre immaginare circuiti alternativi. Uno potrebbe coinvolgere la grande distribuzione organizzata, ad esempio introducendo un’ecotassa sulla quota di materiali non riciclata, da scontare in proporzione all’impegno nella riduzione degli imballaggi e nella scelta di materiali più facilmente riciclabili. Si potrebbe altresì istituire un sistema analogo a quello già applicato per il risparmio energetico con i cosiddetti “certificati bianchi”, che potrebbero essere rilasciati a chi dimostra di aver riciclato un materiale; i soggetti obbligati potrebbero essere tenuti a presentare ogni anno un numero congruo di tali attestati, che in tal modo potrebbero essere comprati e venduti. Si potrebbe generalizzare il meccanismo dei depositi cauzionali per tutti quei beni e prodotti per i quali ciò ha senso, a cominciare dai grandi e piccoli elettrodomestici. Si dovrebbe infine potenziare le opportunità di sbocco dei materiali riciclati, sia promuovendone l’uso (ad es. in edilizia), sia guidandolo attraverso la domanda pubblica e il green procurement.

Gli obiettivi quantitativi di riciclo andrebbero differenziati per regione oggi le migliori rese ottenute nelle regioni del nord fanno paradossalmente da tappo, nel senso che se gli obiettivi sono già quasi raggiunti, l’incentivo a destinare ulteriori risorse al sud ne risulta indebolito. Andrebbe inoltre fissato un obiettivo specifico per gli imballi primari.

La terza grande novità riguarda l’estensione del principio a filiere nuove e finora non toccate se non marginalmente dall’economia circolare dai tessuti ai mobili e oggetti da arredo, dai rifiuti da costruzione e demolizione ai materassi, dal “food waste” ai giocattoli; e insieme, alla ricerca di nicchie all’interno delle filiere già attive, come ad esempio sta avvenendo per il PET all’interno della più vasta famiglia dei materiali plastici. Per i materiali più “virtuosi” in tema di economia circolare deve essere prevista la possibilità di chiamarsi fuori dai sistemi collettivi, optando per circuiti di raccolta alternativi e specializzati laddove la maggiore virtuosità dovrebbe consentire un costo minore, o per la maggiore facilità di intercettare e trattare il materiale, o per i più elevati prezzi di mercato.

Non sempre e non necessariamente si dovrà seguire il modello già consolidato dei “consorzi di filiera”, anche se in qualche modo andrà sempre garantita l’esistenza di un sistema in grado di individuare un soggetto gravato di responsabilità che funga da “destinatario di ultima istanza”.


Antonio Massarutto è professore al Dipartimento di scienze economiche e statistiche dell’Università di Udine.

Queste sfide non devono trovare impreparato il sistema dei consorzi di filiera, cui pure va riconosciuto l’importante merito di avere dato avvio e impulso alla stagione dell’economia circolare. Sarebbe sterile e frustrante, e certamente poco utile, attardarsi in battaglie di retroguardia a difesa delle prerogative e delle quote di mercato già consolidate.

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