03 Dic 2021
Una slitta vuota nel bosco
Torna in libreria il romanzo XY di Sandro Veronesi, una storia che ricorda da vicino gli avvenimenti del 2020: ne anticipiamo l’inizio
di Sandro Veronesi
Borgo San Giuda non era nemmeno più un paese, era un villaggio. Settantaquattro case, di cui più della metà abbandonate, un bar, uno spaccio di alimentari e la chiesa con la sua canonica – spropositate, in confronto al resto. Fine. Niente giornalaio, niente barbiere, niente pronto soccorso, niente scuola elementare: per tutto questo, e per gli altri frutti della civiltà, bisognava andare a Serpentina, oltre il bosco, oppure a Doloroso, a Massanera, a Gobba Barzagli, a Fondo, a Dogana Nuova, o addirittura giù a Cles. Però c’era un fabbro, per dire, Wilfred, che faceva i chiodi a mano e sembrava Mangiafuoco, e un cimitero con oltre trecento tombe. Vivere lì non aveva senso, ma ci vivevamo in quarantatre anzi, in quarantadue, da quando era morto il vecchio Reze’. Era un posto che non esisteva quasi, e nessuno riuscirà mai a capire perché quello che è successo sia successo proprio lì, dove non succedeva niente.
Succedeva una cosa sola, d’inverno, a San Giuda: l’arrivo della slitta di Beppe Formento. I Formento erano una delle quattro famiglie di San Giuda – la più potente, si potrebbe dire, se non facesse ridere. Suo fratello e sua sorella possedevano il bar e lo spaccio, e i loro figli erano i soli giovani che vivessero lì. Una, Perla, figlia di Rina, aveva fatto parte della Nazionale di biathlon, e aveva anche vinto una medaglia nella staffetta; l’altro, Zeno, figlio di Sauro, era stato una promessa del salto dal trampolino, ma poi aveva smesso.
Beppe Formento amava i cavalli e possedeva un centro ippico, vicino a Serpentina; d’estate c’era un certo giro di villeggianti che andavano a noleggiare i cavalli per fare le passeggiate, e d’inverno Beppe riusciva ad accalappiare una decina di turisti al giorno e li portava a fare un giro sulla slitta a cavalli: vecchi, mamme e bambini piccoli al seguito delle settimane bianche, che trovavano il dépliant negli alberghi della zona e decidevano di provare l’emozione di una gita da XIX secolo. L’itinerario era sempre lo stesso: dal centro ippico su verso il trampolino da salto abbandonato, da lì attraverso il bosco fino all’albero ghiacciato (lo ghiacciava lui stesso, tutti gli anni, col cannone da neve, per dare un’emozione ai suoi clienti), poi dritto a San Giuda e ritorno.
Alle dieci in punto, tutte le mattine, Beppe Formento fermava la slitta nella piazza del villaggio, scendeva, annunciava una sosta di venti minuti e i turisti infreddoliti si rifugiavano nel bar di suo fratello a bere caffè e cappuccini. Era lui che portava la verdura fresca e la carne, ogni mattina, e l’acqua minerale, il latte, il caffè, la pasta, il formaggio, il vino e le bibite allo spaccio dei suoi fratelli, su un carrello coi pattini attaccato dietro alla slitta. Mentre i turisti si rifocillavano lui scaricava la roba e poi, prima di ripartire, consigliava a tutti una visita alla chiesa; i turisti gli davano sempre retta e a quel punto entravo in gioco io: li accoglievo all’ingresso, mostravo loro il crocifisso ligneo del XV secolo, il pulpito tardogotico con i suoi bassorilievi, la statua della Madonna delle Selve e quella del nostro Santo, sul conto del quale spiegavo le cose che c’erano da spiegare: San Giuda Taddeo (tutti credono sempre che si tratti di Giuda Iscariota, il traditore), apostolo, fratello di Giacomo il Minore e cugino di Cristo, morto martire in oriente, protettore dei diseredati e di tutti quelli che non hanno speranza.
Certe volte le mie parole erano più ispirate, o magari tra i turisti c’erano veramente dei disperati, e allora si perdeva un po’ di tempo perché qualcuno decideva di inginocchiarsi davanti alla statua a recitare la preghiera per chiedere una grazia. D’altronde, è una preghiera bellissima. Poi tutti risalivano sulla slitta, Beppe Formento faceva schioccare la frusta e i due cavalli, Zorro e Malinda, ripartivano scampanellando al trotto leggero e delicato che Beppe Formento aveva insegnato loro. Buck, il suo pastore tedesco, restava un altro minuto al caldo del bar, poi scattava al galoppo e raggiungeva la slitta prima che svoltasse la curva che riportava verso il bosco, e così era, da dicembre ad aprile, tutte le mattine, domeniche comprese. Beppe Formento non tornava mai al villaggio, nel pomeriggio: aveva sempre molto da fare al centro ippico, e da quando qualcuno, anni prima, una notte aveva rubato tutte le selle e i finimenti dalla scuderia, dormiva là in una stanzetta dietro l’ufficio.
Tutto questo dovrebbe essere sufficiente a rendere l’idea dello sconvolgimento che è piombato su di noi quella mattina, quando alle dieci la slitta si presentò in piazza, puntuale come sempre, ma vuota. Non c’era Beppe Formento, non c’era Malinda, non c’erano i turisti, non c’era il carrello coi viveri e non c’era Buck che la seguiva. Solo la slitta trainata da Zorro al galoppo, in un terrificante sferraglio di campanacci che ha insospettito immediatamente tutti noi che l’abbiamo udito.
Si dice che il destino sia invisibile, ma almeno quella volta, per noi, non avrebbe potuto essere più appariscente. È il momento che ha cambiato le nostre vite, tutti lo abbiamo riconosciuto e nessuno di noi potrà mai dimenticarlo: tutti ricorderemo per sempre cosa stavamo facendo (io stavo preparando la marmellata di arance, per esempio), e l’urgenza con cui l’abbiamo interrotto per uscir fuori a vedere, nonostante nevicasse fitto. E nessuno di noi che siamo usciti in piazza dimenticherà gli occhi di quel povero cavallo, la sua espressione terrorizzata, e gli spasmi, credetemi, umani, che percorrevano il suo muso perduto. Se mai una bestia è stata sul punto di parlare, è proprio Zorro quella mattina; ma anche se gli fosse stato dato di farlo, credo che non avrebbe trovato le parole, perché di parole per dire quello che avrebbe dovuto dire non ce ne sono.
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