30 Ago 2022
Sull’ambiente troppe norme sparse, serve flessibilità
Le aziende costrette a inseguire norme disseminate ovunque, spesso contraddittorie e con problemi interpretativi
Intervista a Mara Chilosi
Come si è evoluta la normativa ambientale italiana e come è cambiato l’atteggiamento delle imprese?
Negli ultimi vent’anni, la necessità di recepire le direttive di Bruxelles ha portato a comporre un corpus piuttosto consistente, che abbraccia diversi ambiti con un approccio interdisciplinare. Un po’ come la sicurezza sul lavoro, il diritto ambientale interessa più ambiti dell’impresa. Ci troviamo per esempio a parlarne quando facciamo acquisizioni di stabilimenti, con la gestione delle bonifiche, in un ambito di due diligence. Ma anche nella vita operativa e nel rapporto con il consumatore, con la responsabilità estesa del produttore, i modelli di consumo, l’ecodesign. In più, adesso la conformità ambientale ha lasciato il posto a un concetto di sostenibilità più ampio. Alla conformità agli obblighi in materia ambientale si associano anche rating finanziari, il che rende il tema più centrale. L’approccio delle imprese è diventato per così dire olistico.
In che senso?
Le aziende hanno capito che la collettività e i consumatori chiedono una maggiore attenzione alla sostenibilità. E che la sostenibilità non riguarda solo l’ambiente. Una volta il diritto ambientale era una branca che interessava le industrie e alcune società di servizi, adesso si applica a tutte le attività economiche. Questo ha cambiato notevolmente anche la professione. Il diritto ambientale sta diventando una specializzazione importante cui si stanno avvicinando moltissimi giovani. Quando abbiamo iniziato eravamo pochissimi, perché era una tematica molto di nicchia.
Com’è organizzata la normativa dal punto di vista legislativo?
La normativa ambientale si sviluppa intorno al cosiddetto codice dell’ambiente, il decreto legislativo 152 del 2006, che in teoria dovrebbe essere la norma generale in materia. A questo si sommano una miriade di altre norme speciali o di disposizioni disseminate in altre norme. Questo è un problema del diritto dell’ambiente italiano: non è fruibile, è molto frammentato, è un corpus di norme anche di difficile ricostruzione, che si sono succedute nel tempo senza che sia mai intervenuta una riforma organica. Una delle difficoltà maggiori che incontrano le aziende è quella di individuare in maniera completa le norme ambientali che si applicano a una determinata attività, di essere certi di averle individuate tutte. Soprattutto, ci sono spesso problemi interpretativi, che si pongono perché la disciplina è frammentata. Ci possono essere contraddizioni tra norme diverse che si applicano alla stessa fattispecie.
Quindi il D.L.152 non ha risolto il problema?
Il Codice Ambientale del 2006 doveva razionalizzare e semplificare, ma è stata una chimera. Non solo non è onnicomprensivo, ma il legislatore prima ha inserito nel codice alcuni ambiti della normativa ambientale, come la tutela delle acque, le bonifiche, la gestione dei rifiuti, il danno ambientale, alcune procedure autorizzative, poi ha subito ripreso a disseminare norme ambientali ovunque. Ormai l’aggiornamento normativo per chi si occupa di diritto dell’ambiente è quasi su base quotidiana. L’ambiente si sposa con tanti altri ambiti regolamentari, che riguardano autorizzazioni, incentivi, fiscalità, semplificazioni, rifiuti: possiamo trovare queste norme sparse ovunque.
Ci sono dei tentativi di semplificazione?
Da qualche tempo è stata avviata anche in sede ministeriale un’iniziativa per individuare le opportunità di semplificazione e razionalizzazione del quadro di riferimento. Ma si è trattato di azioni parziali, a macchia di leopardo, senza una visione organica. Questo problema riguarda tantissimi ambiti. Quelli in cui è più evidente il peso di questa situazione sono la normativa sui rifiuti e quella sulla bonifica dei siti contaminati. Due ambiti emblematici in cui la frammentazione e la sovrapposizione di norme e strumenti creano problematiche che rendono sostanzialmente impossibile o molto difficile portare avanti certe attività.
Ci fa un esempio?
Un’azienda decide di avviare un progetto di sostenibilità che riguarda il ritiro dei propri beni di consumo dal mercato per avviarli al riciclo. Oppure di sviluppare progetti innovativi di ottimizzazione delle filiere logistiche che riguardano anche materiali di scarto e rifiuto. Dal punto di vista tecnico e operativo – gestionale trova le soluzioni, ma quando va a vedere come deve svolgere l’attività nell’ambito della normativa ambientale si rende conto che certe cose non si possono fare perché mancano le norme di copertura. Quindi deve scegliere se fare il progetto o assumere un ambito di rischio: in un Paese normale questo non dovrebbe accadere. Ci sono aspetti, come avere lo strumento autorizzativo adeguato per svolgere una determinata attività, o compilare i formulari di trasporto dei rifiuti, che sembrano banalità ma si portano dietro rischi sanzionatori. Un’azienda che vuole operare correttamente si trova di fronte a dei blocchi. Per non parlare delle bonifiche, dove abbiamo un corpus molto frammentato, con norme sull’abbandono dei rifiuti anche storici che richiedono un certo approccio, poi quelle sulla bonifica, quelle sulle terre di scavo, quelle sui riporti. Tutte norme che prevedono cose simili, ma disciplinate in maniera diversa, per cui in uno stesso sito ci si trova di fronte a situazioni paradossali. Capita di non poter scegliere la strada più adeguata dal punto di vista tecnico perché mancano strumenti normativi chiari, o gli strumenti normativi non consentono di fare determinate scelte.
Perché succede questo?
Perché abbiamo la mania di regolamentare le varie fattispecie in maniera troppo dettagliata. Questo porta a dimenticare sempre qualcosa, o a dare descrizioni che vanno bene nel 90% dei casi, ma c’è sempre un 10% che sfugge. In altri Paesi l’approccio è molto più progressivo e flessibile, sono valorizzati strumenti come gli accordi programma, o la possibilità per le associazioni imprenditoriali di categoria di disciplinare determinati ambiti operativi per le imprese del settore attraverso linee guida e prassi raccomandazioni adattabili nel tempo, che possono avere un riconoscimento normativo ma che non hanno bisogno per essere aggiornate di tutto l’iter che richiede la modifica di una norma di legge o di un decreto ministeriale. Noi questo tipo di strumenti di flessibilità non li usiamo, oppure li ingessiamo, come nel caso delle famose autorizzazioni sull’end of waste, un grande problema della reale attuazione dell’economia circolare in Italia. Finché non si avrà un approccio diverso agli impianti che gestiscono rifiuti e al tema dell’end of waste, secondo me, l’economia circolare rimarrà più uno slogan che qualcosa di concreto in termini di numeri e di innovazione.