30 Mag 2018

Rivoluzione digitale: cosa sta cambiando?

Articolo a cura di Umberto Bertelè

Umberto Bertelè, professore emerito di Strategia e Chairman Osservatori Digital Innovation Poli-tecnico di Milano

Così la digitalizzazione ridisegna la nostra vita e la nostra organizzazione sociale

Sono digitali ben sette delle otto imprese che capeggiano la classifica mondiale per capitalizzazione di Borsa, tutte con un valore che (a fine settembre 2017) superava i 400 miliardi di dollari. Le statunitensi Apple, Alphabet-Google, Microsoft, Facebook e Amazon occupano nell’ordine i primi cinque posti, le cinesi Alibaba e Tencent gli ultimi due. Sono quasi tutte molto giovani: Facebook ha solo 13 anni di vita, Alibaba 18, Alphabet-Google e Tencent 19, Amazon 23. E quasi tutte, a differenza del 2001 (quando scoppiò la “bolla Internet”), hanno utili netti netti molto elevati: oltre 45 miliardi di dollari Apple, circa 20 Alphabet-Google e Microsoft, quasi 14 Facebook. La prima delle non digitali – la Berkshire Hathaway di Warren Buffett – è solo sesta, seguita (dal nono posto in poi) da nomi famosi quali quelli di Johnson&Johnson, Exxon Mobil e JPMorgan.

Le sette imprese citate non sono certo le uniche digitali che hanno acquisito visibilità negli ultimi anni. Qualche altro nome? Uber, Airbnb, PayPal, Booking (Priceline), Expedia, LinkedIn (ora acquisita da Microsoft), Twitter, Netflix e Spotify, per limitarci ad alcune delle più famose, ma anche per certi versi Tesla. E sono quasi tutte digitali (Uber e Airbnb incluse) le 168 imprese denominate unicorni, quelle cioè – non ancora quotate – che sono state valutate almeno un miliardo di dollari in occasione dell’ultimo round di finanziamenti privati.

Siamo alle soglie di una nuova “bolla”?

Qualche iperesaltazione di sicuro esiste, per quanto riguarda sia gli unicorni sia i multipli utilizzati nella valutazione delle imprese quotate. Gli stessi utili netti delle top-7 potrebbero subire tagli significativi se, sotto la pressione della crescente irritazione popolare, venissero almeno in parte chiusi i buchi che ora permettono una rilevantissima elusione fiscale; o se, sotto la pressione delle imprese e dei comparti vittime della cosiddetta digital disruption, venissero adottate significative misure antitrust o venissero introdotte nuove norme volte a vincolare l’uso dei dati, talora definiti il nuovo petrolio per il differenziale competitivo che essi garantiscono a chi è in grado di raccoglierli in misura consistente e di elaborarli per profilare (con un uso crescente dell’intelligenza artificiale) i potenziali clienti.

Ma, al di là delle scommesse e (talora) dei capricci della finanza, la digitalizzazione rappresenta uno dei fenomeni di maggiore impatto non solo sull’economia e sulla finanza, ma anche sulla nostra vita e sulla nostra organizzazione sociale. Non c’è comparto che possa considerarsi immune dalla nascita di nuovi business model che sfruttino la digitalizzazione per mettere in crisi quelli esistenti: sono talora le imprese già consolidate (incumbent) che li introducono, per migliorare la propria posizione competitiva; ma forse più spesso l’innovazione nasce nelle startup, non oberate dalla resistenza al cambiamento di chi rischia la marginalizzazione e dalla presenza nello stato patrimoniale di asset ancora da ammortizzare.

L’enorme successo degli smartphone (che permettono l’accesso a Internet in mobilità e mantengono permanentemente interconnessi miliardi di persone), l’impatto dirompente dell’ecommerce sulla distribuzione tradizionale (che ha ad esempio di recente costretto imprese come Nike e Ikea a dirottare parte delle proprie vendite attraverso le piattaforme di Amazon e/o Alibaba), la crescita del digital advertising di Google e Facebook (che ha provocato come danno collaterale inintenzionale la crisi dei giornali), la crescita dei pagamenti e dei trasferimenti di danaro digitali (che ha portato di recente PayPal a superare in valore American Express e a quasi raggiungere Morgan Stanley e Goldman Sachs), l’uso dei software intelligenti in luogo dei giovani avvocati e dei giovani revisori contabili negli studi professionali per le attività di base, la prospettiva delle self-driving car, il nuovo manufacturing (Industria 4.0) rappresentano esempi di come la digitalizzazione si stia muovendo in tutte le direzioni.

mani ragazzi smartphone

Photo credit: afagen on VisualHunt / CC BY-NC-SA

I problemi principali

Le potenzialità sono enormi, è indispensabile sfruttarle e sarebbero fortemente autolesionistici  – in economie aperte come la nostra – comportamenti luddistici. Ma i problemi da affrontare, soprattutto nel breve-medio termine, sono numerosi e di non facile soluzione. Ne citerò due. Il problema occupazionale: ci può essere un ritardo, più o meno elevato, fra il momento in cui la digitalizzazione – creando efficienza – distrugge occupazione e quello in cui emergono nuovi bisogni. Il problema della distribuzione del reddito: molti dei lavori che evaporano (ad esempio nelle banche, nei servizi professionali e nel commercio) sono quelli tipici della classe media e il rischio, anche per le ricadute politiche, è che si vada verso una radicalizzazione nella distribuzione e una pericolosa contrazione della classe media stessa.

Sono problemi destinati a mio avviso a entrare pesantemente nell’agenda politica, molto di più di quanto lo siano adesso. Sono problemi che ben difficilmente potranno però essere risolti a livello di singolo Paese, ma che richiederanno – a differenza di quanto ad esempio è sinora accaduto in tema di fisco – un molto maggior allineamento fra le politiche dei diversi Paesi.

Rilegno 20

Questo articolo è estratto dalla nostra rivista Rilegno 20, realizzata per celebrare i vent’anni del consorzio. Clicca sull’icona sottostante per leggerne il pdf!

Rilegno 20 - Vent'anni di impegno

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