21 Giu 2024

Ritorno alla natura

L’uomo ha distrutto gli ecosistemi naturali, ma non abbiamo mai provato a ripristinarli. E’ possibile ripristinare un ecosistema veramente naturale? E siamo sicuri che ci convenga?

C’è un equivoco molto comune nella nostra cultura: pensare l’agricoltura del passato come naturale, mentre quella di oggi come artificiale. E’ uno dei grandi inganni in cui oggi rischiamo di cadere. Forse è dovuto alla comunicazione o anche a una visione nostalgica del passato, che tendiamo sempre a vedere come migliore del presente e ancora di più del futuro. In realtà, fin dalla nascita dell’agricoltura otto – diecimila anni fa, quando ha iniziato ad addomesticare le piante, l’uomo ha cominciato a trasformare quelli che fino ad allora erano ecosistemi naturali in sistemi molto artificiali. Per quanto riguarda le foreste dobbiamo probabilmente distinguere tra situazioni molto diverse. Se pensiamo a paesi come gli Stati Uniti e il Canada, ma in parte anche al Nord Europa, possiamo ancora pensare ad alcuni ecosistemi forestali come a ecosistemi naturali mai toccati dall’uomo. Questo, soprattutto nel Nord America, è un obiettivo delle politiche di gestione del patrimonio naturale: un approccio che da noi non trova tanti estimatori. In Europa, in realtà, le foreste sono più o meno tutte antropizzate.
Anni fa mi sono occupato di genetica delle popolazioni dell’abete rosso sulle Alpi italiane. E’ molto difficile trovare popolamenti di abete rosso che siano naturali, cioè che non siano il risultato del trapianto di piante che arrivano soprattutto dal centro Europa, o comunque di disseminazione di semi che non erano quelli originali. Quindi è da vedere quanto ci sia di naturale nelle nostre foreste da un punto di vista genetico, almeno per quanto riguarda l’abete rosso. E comunque si tratta pur sempre di foreste che sono più o meno intensivamente gestite: in Italia si sostiene da molte parti, soprattutto da parte degli esperti di selvicoltura, che le nostre foreste devono essere gestite.

Il fenomeno del rimboschimento in Italia ha portato a un notevole aumento delle superfici forestali, anche se non sappiamo bene cosa stia succedendo su queste superfici, dove il bosco sta riguadagnando terreno. Sono soprattutto pascoli, che una volta abbandonati dalla pastorizia vengono di nuovo ricoperti dalle montagne. Anche questo è un equivoco: quanto del paesaggio a cui siamo abituati è davvero naturale, e quanto è invece artificiale? Il momento storico è interessante, perché si sta parlando di sforzi imponenti di riforestazione. C’è questo progetto internazionale dei mille miliardi di alberi, promosso dal G20, che probabilmente non tiene nemmeno bene in considerazione la dimensione numerica. L’idea piaceva, perché mille miliardi è un numero tondo. Ma c’è un problema di superficie e in un paese come l’Italia c’è anche il problema di trovare il materiale da piantare, se si volesse soddisfare l’obiettivo, perché non abbiamo vivai che producano piantine in numero sufficiente. E bisogna capire quanto con questi piani di riforestazione si vogliano ricostituire delle foreste naturali, con uno di quegli approcci che spesso vengono chiamati di rewilding, sui quali non sappiamo ancora molto, perché abbiamo fatto il processo in un senso, ma mai nel senso opposto. Abbiamo distrutto gli ecosistemi naturali, ma non abbiamo mai provati a ripristinarli e non sappiamo neanche bene in quanto tempo si possa riuscire a ripristinare un ecosistema veramente naturale.

E’ sicuramente un processo virtuoso, ma non so quanto sia facile. Sarei molto interessato a metterlo in atto proprio in pianura. IO sostengo che se riuscissimo a intensificare in maniera sostenibile l’agricoltura nella pianura padana, con una combinazione di diverse tecnologie, potremmo permetterci di abbandonare alcuni dei terreni che oggi sono utilizzati per l’agricoltura e riportare nella pianura padana quella foresta di latifoglie he era l’ecosistema naturale preesistente e che abbiamo cominciato a distruggere fin dall’epoca dei Romani.

Io credo che in un paese come l’Italia non possiamo considerare le foreste come degli ecosistemi naturali. Ci si avvicinano, sono capaci di supportare livelli di biodiversità sicuramente elevati e credo che in molti casi sarebbe possibile lasciarle al loro destino e riportarle a una situazione di naturalità. Ma a quel punto bisognerebbe capire se questo soddisfa il bisogno di servizi ecosistemici che le foreste possono fornirci. Ad esempio, uno dei servizi che danno è quello ricreativo: siamo abituati ad andare a camminare in foreste dove i sentieri sono puliti e dove gli alberi, quando cascano per terra, vengono portati via. Una foresta naturale è un’altra cosa.

Le tipologie di editing genetico sono applicabili anche a piante di alto fusto. Non c’è nessuna differenza tra piante perenni annuali, specie legnose o erbacee. Ma c’è una differenza sostanziale, ossia che i prodotti delle biotecnologie possono essere diffusi nell’ambiente solo accettando di seminare semi o piantare piante. Se ci si affida solo alla rinnovazione naturale, non c’è modo di portare questi prodotti nelle foreste. Si tratterebbe di farlo attraverso un tipo di selvicoltura molto diverso rispetto a quello che per lo più si fa in Italia. Oggi le piantagioni si fanno molto raramente. Gli obiettivi potrebbero essere principalmente due. Uno è difendere le piante dai sempre più frequenti attacchi di patogeni che il più delle volte arrivano dall’esterno. Quello che sta succedendo, e che è iniziato già nel 1800 con l’intensificarsi sia del movimento delle persone sia degli scambi di merce, è che assieme a persone e merci hanno iniziato a viaggiare anche insetti, funghi, batteri che attaccano le piante. Ora le biotecnologie possono fornire una risposta a questo problema che esiste anche per le piante forestali. Il pino, per esempio, oggi è minacciato dal bostrico. Questo è un problema enorme. Attraverso le biotecnologie potrebbe essere possibile creare delle piante resistenti all’infezione di questo patogeno.

L’altro obiettivo è quello della produzione di legno per scopi industriali e in questo campo sicuramente ci sono tante possibilità. Ma le biotecnologie possono consentirci di rendere le piante più produttive, cioè di aumentare la resa per ettaro, o di cambiare le proprietà meccaniche del legno. Uno dei settori dove c’è stato più investimento in ricerca è quello della produzione di combustibili a partire da specie legnose, in particolare utilizzando il pioppo. Se riusciamo ad ottenere pioppi che abbiano meno lignina e più cellulosa, questi materiali potrebbero essere più adatti alla conversione in biocarburanti.

Michele Morgante, docente ordinario di Genetica all’Università di Udine, è Direttore Scientifico dell’Istituto di Genomica Applicata. Già presidente della Società Italiana di Genetica Agraria, è socio dell’Accademia Nazionale dei Lincei.

Per approfondire i temi di questo articolo ascolta Ci vuole il legno – episodio 5: La ricerca che salva, cui ha contribuito anche Renato Ciampa, imprenditore.

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