08 Mar 2023

Primo: collaborare

Nelle relazioni internazionali come nei comportamenti individuali servono cooperazione e dialogo

Intervista a MASSIMO TAVONI

Che cosa pensa in questa fase delle politiche climatiche internazionali?

Sono stati fatti passi avanti secondo me importanti. CI sono alcuni Paesi che stanno spingendo e, se faranno quello che hanno promesso di fare e che stanno anche traducendo in legge, ci saranno dei progressi significativi. L’Europa ha il piano più ambizioso, il Fit for 55, che è stato approvato anche dal Consiglio europeo nelle sue linee generali e adesso è in negoziazione al Parlamento europeo. La politica europea è la più avanzata del mondo e con Fit for 55 dimostra la sua complessità, perché si tratta di un pacchetto molto articolato con quindici leggi diverse al suo interno che coprono moltissimi temi diversi. Speriamo che questo progetto non naufraghi (la probabilità è bassa), oppure che non rallenti, e in questo caso la probabilità è più alta, sotto la spinta della crisi energetica dovuta alla guerra in Ucraina e dei nazionalismi e antieuropeismi che crescono, non solo in Italia, secondo Paese manifatturiero del continente, ma in tutta Europa.

E fuori dal Vecchio Continente?

Gli Stati Uniti con l’Inflation Reduction Act varato da Biden hanno fatto un passo avanti importante, anche se probabilmente non sufficiente a raggiungere gli obiettivi di riduzione delle emissioni del 55 per cento fissati dall’Europa, e che sicuramente darà anche uno stimolo industriale significativo agli USA. Vedremo cosa faranno altri Paesi, come la Cina, ma se non altro hanno annunciato alla Cop di Glasgow l’intenzione di andare verso la neutralità climatica. Se mettiamo tutti insieme gli impegni promessi a Glasgow, il quadro non è così male; la temperatura sicuramente andrà oltre 1,5 gradi, e questa è una brutta notizia, sicuramente andrà verso i 2 gradi, e questa è un’altra brutta notizia, visto che già a 1,2 gradi dove siamo oggi la situazione è preoccupante, ma almeno cerchiamo di evitare il peggio. Questo però se i Paesi continueranno a cooperare e continueranno a fare quello che hanno promesso di fare nelle sedi internazionali.

Che impatto ha avuto la guerra su questo scenario?

Ha cambiato molto la prospettiva geopolitica del mondo, e non necessariamente nella direzione giusta, però le implicazioni per il clima non sono ancora chiarissime. Da un lato il sovranismo nazionale e di indipendenza energetica può anche spingere le fonti locali, in primis le rinnovabili, e questo può essere positivo; ma dall’altro la mancanza di cooperazione internazionale rende molto più difficile trovare una soluzione comune. Il tutto può sfociare in guerre commerciali, costi maggiori di riduzione delle emissioni di CO2 , un ritorno ai fossili con nuove infrastruttre come quelle per i gas liquefatti su cui si sta investendo molto anche in Europa. IL rischio è quello di un passo indietro; sicuramente da un punto di vista di politica internazionale il passo indietro c’è stato, e di questo si deve tener conto nel disegnare politiche adeguate. Quanto alle perdite di gas metano nel mar Baltico che se rilasciato nell’atmosfera senza essere bruciato ha un impatto molto forte sul clima, anche se a livello globale si tratta di perdite relativamente modeste, l’impatto sulla temperatura non è visibile. Ma il problema principale è l’Europa.

A cosa si riferisce in particolare?

L’Europa sta faticando molto a trovare una risposta coesa a questa crisi, non riesce a mettersi d’accordo sul tetto al prezzo dell’energia. I Paesi europei vanno un po’ per i fatti loro, la leadership tedesca purtroppo non si sta dimostrando all’altezza, tutti guardano alla propria situazione nazionale. La Germania si è esposta moltissimo al gas russo negli ultimi vent’anni, sia con Schroeder che con Merkel, e si trova in una situazione di difficoltà. Questo non aiuta l’agenda europea a fare una riforma dei mercati dell’energia e mettere un cap ai prezzi, cosa che il governo Draghi stava chiedendo da mesi.

Qual è il modo migliore per contrastare i cambiamenti climatici?

L’approccio collaborativo e cooperativo. Ci sono Paesi in cui i danni da cambiamenti climatici sono sempre maggiori, come ad esempio il Pakistan. La cooperazione è importante per la mitigazione, ma anche per trovare le risorse per adattarsi ai rischi climatici che colpiranno perlopiù Paesi che hanno contribuito molto poco al problema, perché sono più poveri e si trovano in fasce di temperature che li rendono più vulnerabili. Tutto questo richiede un approccio cooperativo, ma la situazione geopolitica al momento va in una direzione diversa. I movimenti ambientalisti che partono dal basso possiedono questa dimensione globale, penso ai Fridays for Future. In Italia la petizione sul clima di quest’estate è stata sottoscritta da più di duecentomila persone: è un segnale che c’è una sensibilità che cresce anche tra i cittadini globali, che sanno che se si tagliano le foreste in Brasile è un problema per tutti. Purtroppo la politica segue una logica internazionale, le istituzioni globali come l’Onu sono in difficoltà e da un punto di vista di Realpolitik la situazione è abbastanza complessa.

Qual è il suo studio recente più significativo?

Ho lavorato al sesto rapporto quadro dell’Ipcc, il panel sui cambiamenti climatici delle Nazioni Unite, uscito lo scorso aprile. Il mio studio usa sia modelli computerizzati sia umani veri e propri per cercare di capire come fare la transizione climatica. I messaggi chiave del rapporto sono che questa transizione è fattibile dal punto di vista tecnologico ed economico oggi più che mai, in virtù dei grandi passi avanti su tecnologie fondamentali come le rinnovabili, le batterie, le celle combustibili, le tecnologie di efficientamento energetico e di elettrificazione, dall’auto elettrica, sino alle pompe di calore. Ci sono le strategie per ridurre velocemente le emissioni di CO2, ma il tasso a cui questo dovrebbe succedere per evitare che le temperature crescano troppo è molto alto: si parla di almeno il 43 per cento di riduzione delle emissioni in questo decennio a livello globale rispetto al 2005, che è un numero ambizioso. Il rapporto, per la prima volta, oltre all’aspetto tecnologico evidenzia anche l’aspetto comportamentale. Le scienze comportamentali analizzano sia le azioni individuali dirette di ciascuno di noi, come le scelte di mobilità, dieta e così via, che hanno un impatto sulle emissioni di CO2 , sia quelle indirette, dal voto alla partecipazione alla società civile. Il rapporto conferma che la dimensione comportamentale è fondamentale, come lo è la volontà dei cittadini di capire questo problema globale, che difficilmente verrà risolto con misure interne ai Paesi e alle regioni, come è auspicato invece da molte di queste nuove tendenze nazionaliste che ahimè vediamo, dall’Italia alla Svezia.

Quando si parla di dimensione comportamentale si pensa a quella individuale; ma c’è anche una dimensione collettiva?

Il comportamento individuale è un’arma a doppio taglio. Il carbon footprint, l’impronta di carbonio di ciascuno di noi, non è stato inventato da Legambiente ma da British Petroleum, perché sposta il problema dal produttore al consumatore. Ma come faccio io cittadino? Non possiamo diventare tutti vegetariani, non abbiamo tutti i soldi per mettere le rinnovabili sui tetti e comprare l’auto elettrica. Le scelte individuali sono importanti; ricordiamoci però che come cittadini dobbiamo mettere pressione sui produttori e le società fossili e sui nostri governi. L’impatto maggiore che possiamo avere è proprio questo. La lotta attuale in tutti i Paesi è una lotta politica di sopravvivenza di diversi interessi industriali che si sono sviluppati attorno alle energie fossili, per i vantaggi che hanno indubbiamente offerto. L’unica via che hanno le democrazie è di mettere la maggiore pressione possibile sui politici e sull’industria, in modo che le politiche di transizione vengano messe in piedi. Ma per fare in modo che il cambiamento di paradigma avvenga, c’è bisogno di consapevolezza nella popolazione, nel management, nei policy maker, nei decisori pubblici. Questo passa attraverso il dialogo e iniziative di educazione nelle università e scuole. Le soluzioni sono complesse e hanno vantaggi e svantaggi. Tutto parte da un processo democratico, presuppone un coinvolgimento diretto degli individui. Questa dimensione comportamentale secondo me è fondamentale, senza togliere nulla all’importanza delle nostre azioni individuali.

prof Massimo Tavoni
Massimo Tavoni è professore di Climate change economics al Politecnico di Milano e direttore scientifico dell’European Institute on Economics and the Environment. Le sue ricerche riguardano le strategie e le politiche per sconfiggere il cambiamento climatico

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