17 Lug 2021

Pandemia, tutto comincia con la deforestazione

La rottura dell’equilibrio nelle foreste all’origine del salto di specie che causa le pandemie intervista a Mario Tozzi

Intervista a Mario Tozzi

Ci spiega in che cosa consiste il rapporto tra deforestazione e pandemia?

L’equilibrio che c’è nelle foreste primarie tra organismi portatori di germi patogeni e il complesso degli altri elementi naturali è millenario. Meno lo si tocca, meglio è. Deforestando si leva spazio agli abitanti della foresta che sono naturalmente portatori di virus e di batteri, soprattutto i pipistrelli. Se li si lascia senza casa, devono trovarsi un altro posto e lo trovano nelle periferie urbane, o nell’allevamento intensivo, o nella monocoltura con cui è stata sostituita la foresta. Lì infettano casualmente organismi di passaggio che possono trasmettere e addirittura amplificare la malattia, che normalmente i pipistrelli assorbono perché hanno un efficace sistema immunitario e una forte risposta antinfiammatoria: il pangolino cinese, o quello malese, le scimmie o altri animali che hanno fatto da intermediari per il passaggio all’uomo. Le ultime dieci pandemie molto probabilmente hanno questa origine: sono tutte zoonosi. Per la verità le malattie tipiche dei sapiens sono molto poche, il vaiolo e poche altre. Le altre sono tutte derivate dagli animali, però prima erano quelli domestici, oggi sono quelli selvatici. Quelle degli animali domestici in qualche modo le teniamo sotto controllo, ormai abbiamo i vaccini e ci siamo immunizzati, quelle degli animali selvatici no.

Quegli animali, cacciati di frodo e commerciati illegalmente, finiscono anche nei wet market asiatici, dove come noto si macellano sul posto animali anche protetti, e dove c’è la possibilità, anzi quasi la certezza, che se quegli animali sono portatori di qualche malattia, la trasmettono.

E la tesi secondo la quale il virus è stato creato in laboratorio, magari a Wuhan?

Mentre il legame tra zoonosi e atteggiamento predatorio dell’uomo verso l’ambiente è pubblicato sulle riviste scientifiche, quello della sua creazione in laboratorio non lo è, quindi dal punto di vista scientifico vale zero. È vero che tra chi la sostiene c’è un premio Nobel per la medicina, Luc Montagnier, uno dei co-scopritori del retrovirus Hiv. Ma non l’ha scritta su una rivista scientifica, ha rilasciato un’intervista alla televisione francese, quindi ha sconfessato il metodo con cui ha vinto il premio Nobel, che è quello di pubblicare sulle riviste. Gli scienziati non parlano sui quotidiani o in televisione, ma sulle riviste scientifiche. Se uno scienziato ritiene che il virus sia artificiale, non deve far altro che pubblicare una ricerca su Nature o su Lancet. Ci sono stati dei tentativi di pubblicare questo lavoro che sono stati respinti proprio perché non avevano un fondamento scientifico; del resto se ciascuno pubblicasse quello che gli pare, senza che ci fosse un controllo da parte di altri scienziati, saremmo sommersi da carta straccia. Per questo è necessaria la peer review, una revisione cui si sottopongono volentieri tutti gli scienziati del mondo, fatta da altri scienziati.

È l’unica maniera che abbiamo per far avanzare il progresso scientifico. Altrimenti come faremmo a dire che una ricerca è vera e un’altra no? I lavori pubblicati sulle riviste scientifiche, invece, ci dimostrano che se è vero che questo virus presenta caratteristiche che sono proprie anche di altri virus, è semplicemente perché è un coronavirus. Non c’è nessuna traccia di struttura artificiale; in più l’uncino molecolare che ha questo virus, lo spike che lo caratterizza, quello che gli serve per entrare nella cellula ospite, ha un funzionamento originale, nuovo, che non s’era mai visto prima. Se qualcuno avesse dovuto usare un uncino molecolare per creare in laboratorio un nuovo virus avrebbe preso quello di Sars Covid-1: inventarne uno nuovo e poi farlo funzionare sarebbe stata un’operazione molto più complicata. Certo l’idea del virus nato in laboratorio è seducente perché ci scarica la coscienza da molte colpe, ci piace pensare che non dipende da noi ma dal cattivo cinese…

Cosa deve cambiare perché il salto di specie che provoca la pandemia non si ripeta più?

La prima cosa è che l’atteggiamento dell’uomo verso la natura non dev’essere più predatorio: è quello il problema più grosso. Noi sapiens abbiamo sempre un atteggiamento predatorio verso il mondo naturale. Questo potrebbe funzionare se l’uomo fosse il predatore unico. Ma anche il virus è un predatore, un predatore microscopico che preda da dentro e non da fuori, ma ha la stessa logica: cerca di rifornirsi di più carne possibile. Quindi non siamo l’unico predatore sulla terra. C’è qualcuno che essendo così piccolo è intelligente almeno quanto noi – intendendo come intelligenza una caratteristica della vita, non solo dei

sapiens. Il problema è che non c’è consapevolezza del legame tra pandemia e atteggiamento predatorio dell’uomo verso l’ambiente. E infatti abbiamo ricominciato a inquinare quanto prima, oltre a essere sommersi da enormi quantità di plastica per via delle mascherine, il cui materiale poteva essere studiato diversamente, in modo riciclabile. Dovremmo insomma cambiare atteggiamento verso la natura, e lasciare in pace le foreste primarie sarebbe già una buona cosa. Invece succede il contrario, specie nel

sudest asiatico, in Cina, in Nuova Guinea, nel Borneo e anche nella foresta amazzonica. In Europa questo sfruttamento non esiste quasi più, anzi si ripiantuma parecchio, ma sono piuttosto gli incendi, spesso dolosi, a distruggere le foreste. Nel Nordamerica si è arrivati a trattati interessanti come quello della British Columbia: i taglialegna adesso lasciano intatto un terzo della foresta e non tagliano più a raso, perché i consumatori hanno deciso di non comprare più quei prodotti che non provengono da una foresta certificata come ripiantumata. In questo quadro il riciclo del legno ha certamente un ruolo molto importante. Se ricicliamo il legno non dobbiamo andare a intaccare le foreste, specie quelle primarie. Il fatto che in Italia ci sia una così alta percentuale di recupero del legno è dunque un motivo d’orgoglio.

Mario Tozzi è geologo, saggista e divulgatore scientifico, è primo ricercatore presso l’istituto di Geologia Ambientale e Geoingneria del Cnr e membro del consiglio scientifico del WWF

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