10 Dic 2021
La natura, senza parole
Due progetti fotografici d’autore sono il filo conduttore di questo numero di Walden
Intervista a Denis Curti
“Le immagini di questo numero di Walden fanno parte di due progetti fotografici che hanno l’obiettivo comune di restituire attenzione alla natura e alle piante, ma con due linguaggi molto diversi” dice Denis Curti, che ha selezionato i due progetti per Rilegno.
Qual è il significato delle fotografie di Mattia Zoppellaro sulla Milano del lockdown?
Nel marzo scorso, all’epoca del primo lockdown, abbiamo osservato la natura proseguire la sua vita autonoma, indipendentemente dall’uomo e indifferente al virus. Basti pensare ai tanti casi di animali selvatici in giro per le città. Mattia Zoppellaro ha deciso di andare a guardare la natura in una Milano praticamente deserta. Il suo sguardo segue le piste tracciate dall’importanza che le piante assumono quando per la città non c’è in giro anima viva: solo in quel momento ci appare l’incredibile rapporto tra la metropoli e la natura, della cui presenza nella nostra quotidianità, ed è questo uno dei centri dell’indagine di Mattia, non ci accorgiamo nemmeno. Il fotografo si muove come un detective, sottolinea questa presenza meravigliosa delle piante, non a caso in un momento di grande attenzione e sensibilità al verde urbano (penso al progetto milanese ForestaMi e agli impegni che tutte le amministrazioni, in Italia e all’estero, stanno dando ai progetti di riforestazione delle città). In questo caso la fotografia dimostra tutta la sua capacità di evidenziare e sottolineare certi aspetti della realtà. Trovo bellissimo che uno street photographer come Mattia Zoppellaro, abituato ad andare in giro per le città di tutto il mondo a fotografare i propri simili, a fotografare storie e persone, abbia fatto la stessa cosa con le piante. È quasi come se avesse inventato un nuovo genere di fotografia, che a partire dalla street photography, dalla fotografia di strada, arriva a raccontare la storia degli alberi. E ci riporta a una dimensione coreografica di questa città, di cui a volte non ci accorgiamo più.
E le fotografie di Ugo Galassi?
Il lavoro di Galassi è figlio di una fortissima progettualità. Le sue non sono foto casuali o trovate, sono frutto di una ricerca e di un’invenzione intenzionale e complessa. L’aspetto incredibile è che sono scattate al buio: le piante che Galassi ritrae vengono tolte dalla terra e appese a un treppiede, completamente al buio, in modo che la pianta possa essere indagata nella sua tridimensionalità. È una ripresa fotografica che dura più di mezz’ora e in termini tecnici si chiama light painting, o “pennellata di luce”. Il fotografo tiene la macchina sul cavalletto con un tempo di posa molto lungo, poi con una torcia a mano va a illuminare la pianta dove e come vuole. Il risultato è che il fondo buio diventa bianco e dalle fotografie emerge un risultato che nessun fondale trasparente potrebbe dare. Grazie a questa tecnica Galassi indaga le piante, mette in rilievo quello che vuole e ne tira fuori delle fotografie che assomigliano a delle illustrazioni, quasi come certe tavole dei libri antichi di botanica. Le sue foto sono dei veri e propri ritratti: come in un ritratto, delle piante cerca di cogliere l’essenza, il carattere. Quella di Galassi è una fotografia molto consapevole, che mi fa pensare a un’idea di slow photography. Oggi, in tutto il mondo, ogni minuto vengono scattate più foto di quante ne abbia generate l’intero Ottocento. Rivalutare la lentezza significa tornare a usare la fotografia con un grado di consapevolezza che oggi sembra mancare, perché tutte le foto sono prodotte per usarle sui social e vengono continuamente superate dall’immagine successiva. Il lavoro di Galassi ha una qualità che definirei calligrafica: anche da un punto di vista tecnico e formale, si tratta proprio di una grafia, che ha fortemente a che fare con la grammatica delle immagini. Perché anche le immagini hanno una grammatica, così come probabilmente ce l’hanno le piante, che dialogano fra di loro, si muovono, reagiscono, come ci insegna Stefano Mancuso.
Penso che quella di Galassi possa definirsi una storia d’amore con le piante: nelle sue foto c’è un’estetica profonda, ma la profondità più interessante riguarda il rapporto tra chi guarda e l’oggetto. Una relazione che siamo abituati a vivere solo tra umani, mentre Ugo riesce a crearla con le piante. E la cosa più bella è che alla fine le piante vengono tutte le reinvasate e recuperate.
Perché questi progetti?
Rilegno ha scelto, tra gli altri, il linguaggio della fotografia per raccontare la propria storia. Oggi più che mai credo che la fotografia possa essere lo strumento più giusto e più armonico per raccontare le storie degli uomini. Questa immediatezza, questa capacità di sviluppare narrazioni armoniche appartiene tipicamente alla fotografia. Abbiamo scelto questi due progetti per raccontare due storie, e non credo che ci sarebbe stato un altro modo più efficace di raccontarle. Le immagini, a volte, possono anche fare a meno delle parole.
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