05 Ago 2021

Il paese dei comitati di protesta

Le tecnologie che trattano i rifiuti sono mature e conosciute, ma in Italia siamo specialisti nel complicare le cose

Intervista a Chicco Testa

Qual è la situazione degli impianti per i rifiuti urbani in Italia?

Da tempo denunciamo una carenza di impiantistica che ha due caratteristiche: da un lato un forte squilibrio territoriale tra il nord e il sud del Paese, che provoca quel che chiamiamo turismo dei rifiuti, generalmente dal sud verso gli impianti del nord; dall’altro un deficit di capacità di smaltire o riciclare, per cui una quota di rifiuti, normalmente proveniente dal centro-sud, viene spedita all’estero. Viaggiano con queste due tipologie un paio di milioni di tonnellate di rifiuti all’anno. La carenza è più evidente per alcune tipologie di rifiuti, in particolare la frazione umida della raccolta differenziata, che è quasi il 40% del totale, per la quale mancano secondo noi almeno una cinquantina di impianti che possano riciclarla, prevalentemente al centro-sud. Ci sono due tipi di impianti in grado di farlo: quelli che fanno solo compostaggio e quelli che fanno anche estrazione di biometano, recuperando oltre alla materia anche l’energia. Poi mancano impianti per la frazione non riciclabile dei rifiuti, per esempio il plasmix che è la parte delle plastiche che non può essere riciclata perché ha caratteristiche merceologiche troppo povere. L’Ue ha fissato per il 2035 un obiettivo di riciclaggio del 65% del totale dei rifiuti prodotti, con un massimo del 10% per le discariche. Rimane una frazione del 25% che normalmente negli altri paesi viene avviata a termocombustione, quasi sempre con recupero di calore e produzione di energia elettrica. Rispetto a quegli obiettivi, in Italia ci sono grossissime differenze: la Lombardia è praticamente già a target, la Sicilia manda in discarica ancora il 70% dei rifiuti e non possiede impianti di alcun genere. Tra le regioni deficitarie figurano anche Lazio, Campania, Calabria, anche la Toscana; tra quelle che stanno relativamente bene Veneto, Piemonte, Trentino. Mediamente in Italia siamo intorno a un 50% di riciclaggio, quindi dobbiamo aggiungere un altro 15 per cento. Per una legge generale gli ultimi gradini da fare sono i più difficili. All’inizio fare la raccolta differenziata è abbastanza facile, una volta che superi certe soglie devi diventare sempre più attento, preciso; e oltre che di impianti di riciclaggio, manchiamo di impianti di termocombustione.

Qual è l’importanza delle aziende di recupero e riciclo nel panorama dell’economia circolare in Italia?

Un’importanza enorme: se guardiamo il fenomeno nel suo insieme, rifiuti urbani più rifiuti speciali, abbiamo un tasso di riciclaggio piuttosto elevato rispetto a quello degli altri paesi europei. L’economia del riciclo in Italia funziona perché abbiamo alle spalle una storia di carenza di materie prime, quindi siamo da sempre abituati al recupero. Adesso si usano termini complessi, ma io sono abbastanza grande per ricordarmi gli straccivendoli, i raccoglitori di rottami di ferro, di legna e così via, proprio perché l’Italia era un paese povero in generale e povero in particolare di materie prime, per cui abbiamo costruito una capacità di riciclo molto importante; e anche per alcune categorie di rifiuti più recenti, come la plastica, il legno o l’alluminio, abbiamo impianti di tutto rispetto. Il problema è che perché un rifiuto possa diventare una materia prima secondaria, cioè qualcosa che posso riusare, ci vuole una disposizione normativa che lo permetta: è il tema dell’“end of waste”. Se consegno a una cartiera della carta usata non mi sto liberando di un rifiuto, ma sto dando una materia prima secondaria che sarà trasformata. Il processo di produzione dei relativi decreti è lunghissimo e lentissimo, abbiamo interi settori scoperti. Il ministero dell’Ambiente in tre anni è riuscito a fare solo cinque decreti, troppo poco.

Cosa pensa delle municipalizzate pubblico/privato nel panorama del settore del recupero e riciclo dei rifiuti?

Le multiutility hanno una storia radicata nel nostro paese. Sono nate spesso come estensioni dei servizi che i comuni dovevano erogare ai loro cittadini, poi hanno conosciuto un processo di almeno parziale privatizzazione. Le più importanti, A2A, Acea, Hera, Iren, sono quotate in borsa. Avendo livelli di efficienza normalmente superiori agli uffici comunali hanno introiettato diversi servizi che i comuni dovevano rendere: acqua, energia, rifiuti e così via. Oggi sono dei campioncini italiani abbastanza importanti, ancora troppo piccoli se paragonati ai grandi operatori dell’energia o dei rifiuti o dell’acqua che abbiamo in Francia o in Germania, però sono cresciuti molto. L’importante è che lascino spazio alla concorrenza. Una volta agivano sulla base di una concessione esclusiva, oggi abbiamo introdotto in tutti questi settori dei criteri di mercato; bisogna che l’incumbent non abbia una posizione dominante, o che non ne abusi per impedire ad altri di entrare sul mercato. L’importante è che lascino spazio alla concorrenza. Una volta agivano sulla base di una concessione esclusiva, oggi abbiamo introdotto in tutti questi settori dei criteri di mercato; bisogna che l’incumbent non abbia una posizione dominante, o che non ne abusi per impedire ad altri di entrare sul mercato.

Come vede il futuro del Paese su questi temi?

Siamo degli specialisti nel complicare le cose. Vado a molti convegni e sento dire: il problema dei rifiuti complesso. Non lo è affatto, solo l’Italia va in crisi per i rifiuti, abbiamo le emergenze a Napoli, a Roma, in Sicilia. Nel resto d’Europa non ci sono questi problemi, le tecnologie che trattano i rifiuti sono mature e conosciute. I problemi nascono dal fatto che ogni scelta in Italia è difficilissima, abbiamo comitati che si oppongono a tutto, spesso con la complicità delle soprintendenze, del ministero dell’Ambiente, dei politici locali. Tutti pensano di poter scaricare i problemi addosso a qualcun altro, se non si sblocca questo modo di pensare non sono molto ottimista. Dovrebbero cominciare a farlo i leader politici, invece preferiscono spesso lisciare il pelo ai vari comitati di protesta, anziché richiamarli alle responsabilità che ogni territorio ha nei confronti dei rifiuti che produce. E poi va detto che nel settore dei rifiuti non servono soldi, quelli ci sono. Serve la certezza di poter realizzare un impianto e di poterlo gestire per un numero ragionevole di anni senza dover incorrere in problemi di varia natura e genere. Questo vale per i rifiuti come per tante altre attività industriali. Quando A2A, impresa milanese-bresciana, si è proposta per realizzare un importante impianto di termocombustione in Sicilia, non è stata la criminalità organizzata a dire di no. È stato il ministero dell’Ambiente, che non ama i termocombustori per una posizione ideologica contraria: dice che non servono nonostante i numeri siano molto chiari, e dicano l’opposto. Così i rifiuti vengono sempre combusti, ma all’estero.


Chicco Testa, dirigente d’azienda, dirigente pubblico, deputato nella X e XI legislatura, è giornalista pubblicista e scrittore.

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