02 Ago 2023

Gestiamoli bene, gestiamoli insieme

I boschi aiutano a contrastare il cambiamento climatico se sono gestiti in modo pianificato e partecipato. Ecco gli esempi

intervista a Giorgio Vacchiano

Che cosa fanno i boschi per contrastare il cambiamento climatico? Che cosa potrebbero fare se fossero gestiti meglio?

Due cose. La prima è ridurne le cause: con la fotosintesi gli alberi assorbono CO2, che è la principale causa del riscaldamento globale. Purtroppo le nostre emissioni di anidride carbonica sono talmente alte che tutti i boschi della Terra non bastano ad assorbirle: la presenza di CO2 nell’atmosfera sta aumentando. Gli alberi riescono a risucchiare circa un quarto delle nostre emissioni, per l’esattezza il 26 per cento: se non ci fossero, il cambiamento climatico sarebbe ancora più marcato (in Italia l’assorbimento è solo del 10 per cento circa rispetto alle emissioni). Il primo modo per usare bene i boschi è smettere di eliminarli: parlo della deforestazione tropicale, nei Paesi in cui stiamo ancora eliminando superficie forestale eliminiamo anche la possibilità di assorbire carbonio. Inoltre dobbiamo ripristinare il più possibile le foreste dove sono state eliminate: ben vengano le campagne per piantare alberi e ripristinare ecosistemi, a patto che lo si faccia bene, con le specie giuste, non limitandosi ad azioni di tipo sporadico. E dobbiamo evitare il più possibile che le foreste vengano colpite da altri eventi estremi connessi con il cambiamento climatico, come gli incendi, la siccità, gli attacchi degli insetti, le tempeste di vento. Questi eventi determinano la morte di molti alberi e quindi l’inversione della fotosintesi: tutto il carbonio sequestrato dalla pianta torna nell’atmosfera. Ai danni alle foreste segue dunque l’emissione di grandi quantità di carbonio, che dobbiamo evitare in tutti i modi.

E il secondo modo?

Possiamo usare le foreste come soluzione per il nostro adattamento. Puntiamo a raggiungere le emissioni zero nel 2050, ma fino ad allora soffriremo per le conseguenze della crisi climatica. I boschi possono aiutarci a non subire troppi danni: per esempio in città una maggiore superficie verde esercita un potere rinfrescante durante le ondate di calore. Oppure, gli alberi possono diminuire l’impatto dell’acqua al suolo nel caso di improvvise piogge autunnali, assorbendola sulle loro chiome quando sono ancora verdi ed evitando così danni e ruscellamento sul suolo. Infine, in montagna e nelle zone più seminaturali, dove c’è il rischio di dissesto idrogeologico accentuato dalle piogge intense (come quelle che si sono verificate nelle Marche lo scorso settembre), la presenza di alberi sulle pendici e lungo i fiumi di pianura può aiutare a lottare contro il dissesto. Le radici trattengono il suolo e ne prevengono la frana a valle; se ci sono delle frane, i tronchi possono rallentare i massi e ridurre la minaccia per chi abita nelle vallate a rischio.

Come far sì che gli alberi facciano tutto questo?

Abbiamo una responsabilità. Il clima sta cambiando in fretta, a causa nostra, e le foreste sono sotto pressione. Anche in Italia, sebbene stiano ricominciando a espandersi naturalmente dove l’uomo non pratica più l’agricoltura e l’allevamento. Sono ecosistemi molto fragili: se lasciate al loro corso naturale, le foreste si sviluppano ma sono esposte agli eventi estremi. Ecco perché è importante gestire il bosco, per assicurarsi che continui a fornirci i suoi benefici nel tempo, anche di fronte a queste minacce. Per esempio lavorare per prevenire gli incendi, che non vuol dire solo arrestare i piromani, ma dare anche alla foresta una forma meno infiammabile possibile, ridurre la quantità di vegetazione secca e morta a terra, distanziare gli alberi uno dall’altro in modo che le fiamme trovino più difficile passare attraverso le chiome. O prevenire i danni da vento, irrobustendo gli alberi e favorendo le specie che hanno radici più profonde e sono meglio ancorate.

Per fare tutto questo è importante una gestione collettiva del bosco?

Proprio così. Quando interveniamo su una foresta, modificando la sua forma, la sua struttura, la sua composizione specifica, la foresta reagisce lentamente. Non otteniamo risultati in un anno come se fosse un campo di patate. Dobbiamo pianificare bene queste azioni. Solo il 15 per cento delle foreste italiane ha un piano, cioè un documento con valore legale che stabilisce quali sono le funzioni, le vulnerabilità, gli interventi più urgenti sulle foreste di un certo comprensorio per renderle più sicure e, perché no, aumentarne la produttività. Il piano è redatto dal proprietario della foresta, ma ci sono molti soggetti che esprimono altri interessi: da chi ci abita e vuole essere protetto dalle frane a chi vuole passeggiare e raccogliere funghi, da chi vuole prendere legno per scaldarsi e costruire a chi dipende dall’acqua potabile che la attraversa. Un piano dovrebbe coinvolgere queste persone, perché il rischio è quello di assecondare solo certi portatori di interessi e trascurare gli altri. La pianificazione è il pilastro della strategia forestale nazionale, il documento uscito ad aprile di quest’anno dal ministero delle politiche agricole e forestali, che detta le priorità per i prossimi vent’anni per le foreste italiane. Ma la pianificazione deve essere partecipata, collettiva: bisogna che insieme decidiamo, con tutti quelli che hanno un interesse nella foresta, qual è il suo futuro.

Quali ostacoli impediscono di muoversi in questa direzione?

Il principale è la frammentazione delle proprietà forestali in Italia. Due terzi sono di privati: parliamo di piccolissimi proprietari, che in media possiedono due ettari, due ettari e mezzo di bosco. In qualsiasi comune o vallata ci sono centinaia o migliaia di persone che dovrebbero essere coinvolte nella gestione della foresta: farlo è difficilissimo, se non impossibile, perché molti sono emigrati e i loro pronipoti nemmeno sanno di possedere un pezzo di bosco. Questo è uno dei maggiori ostacoli che impediscono di gestire il bosco e di renderlo più sicuro, ad esempio facendo la prevenzione degli incendi.

La Magnifica Comunità della val di Fiemme può essere un modello virtuoso a cui guardare?

Ci riesce da mille anni. Nasce in epoca medievale, con i residenti che spontaneamente decidono di mettersi insieme per gestire meglio la foresta. Gestire una zona più ampia permette di avere più flessibilità. Si può decidere di destinare qualche bosco alla protezione, qualcuno alla produzione, qualcuno a fare da habitat a una specie animale. Ci sono anche altri esempi di gestione collettiva, per esempio le comunali e sull’Appennino tosco emiliano, altro caso di proprietari privati che attuano una gestione comunitaria. Tutti i proventi di questa gestione, per esempio quelli dei permessi di raccolta dei funghi porcini, vengono reinvestiti nel miglioramento della foresta: viabilità, strade, sentieri, manutenzione idraulica. In altri luoghi si sta tentando di favorire l’avvio di questo processo a partire da zero. Il ministero l’anno scorso ha emanato un bando per le aggregazioni o le associazioni fondiarie, che prevede dei finanziamenti per i gruppi di proprietari. Un altro esempio è la Foresta Modello delle montagne fiorentine sul Mugello, dove c’è addirittura un network mondiale di proprietari pubblici e privati che hanno fondato una associazione e decidono insieme come gestire una foresta. Hanno accesso anche ai tecnici dell’Università di Firenze e utilizzano strumenti tecnologici, addirittura satellitari, per il monitoraggio della foresta: questi sono i vantaggi del mettersi insieme.

E le foreste pubbliche?

Questa realtà già esiste in alcune Regioni: sono i consorzi forestali. In Lombardia è molto sviluppata, ce ne sono alcune decine, sono i comuni che si mettono insieme e decidono di affidare la gestione dei loro boschi a un ente. IL vantaggio è che anche un piccolo comune, che non ha risorse e competenze, unendosi ad altri può assumere un bravo tecnico forestale, ottenendo così una gestione più esperta e allo stesso tempo partecipata. Queste realtà funzionano molto bene: io lavoro spesso in Valcamonica e in tutta la vallata ci sono ben 5 consorzi forestali. La tempesta Vaia ha colpito anche quelle zone, oltre al Trentino Alto Adige: c’è in atto un grosso sforzo di ripristino e bonifica e si sta procedendo velocemente. I consorzi hanno esperienza, forestali propri, macchine proprie che permettono di gestire anche situazioni di emergenza.

Giorgio Vacchiano è docente di Assestamento forestale e selvicoltura all’Università di Milano. I suoi studi riguardano il cambiamento climatico e la salvaguardia forestale. E’ autore di La resilienza del bosco

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