17 Gen 2022

Dalla pandemia, luci del mondo nuovo

Come fra Trecento e Quattrocento, quando dalla peste nera nacquero i semi del Rinascimento, la storia ci mette di fronte a un’opportunità di cambiamento. La prima sfida è la sostenibilità.

Intervista a Paolo Mieli

Esiste un’emergenza cambiamento? O stiamo solo vivendo la storia che va e non si ferma?

Esiste eccome. Spesso vengono fatti dei paragoni con il passato per dimostrare che la storia dell’umanità conosce cambiamenti profondi, indipendenti dalla volontà dell’uomo. L’esempio classico è quello del passaggio da un’epoca più calda a cavallo del primo millennio, quando la Groenlandia era una terra verde (come dice il nome, Grönland), a un’epoca di raffreddamento.

Questo è innegabile: e chiunque abbia studiato la storia sa che i cambiamenti hanno coinciso con grandi trasformazioni della terra e anche del genere umano. Ma è altrettanto dimostrato che dalla metà del Settecento in avanti, con un’accelerazione impressionante negli ultimi decenni, l’uomo è in grado di controllare questi cambiamenti e di aggiungere del suo, sia nel male, cioè accentuando i processi di intossicazione dell’atmosfera, che nel bene, cioè mettendoli a freno.

È come se fossimo nel 1945 e parlando dell’uso dell’energia nucleare a scopi bellici dicessimo: le guerre ci sono sempre state e anzi hanno prodotto più morti nel passato che nel presente, quindi perché impressionarsi? Perché questa volta, come fu tra la seconda metà degli anni Quaranta e l’inizio degli anni Cinquanta per l’uso militare dell’energia atomica, dipende da noi. Si tratta di fare come si fece ai tempi dell’arma atomica: mettersi d’accordo per mettere un freno, per stabilire dei codici. Allora ci si riuscì a fatica e fu un processo laboriosissimo.

Adesso, con una minaccia che vale dieci volte l’arma atomica, significa dover fare lo stesso sforzo.

Che cosa pensa degli esiti di Cop26?

Sono molto più positivo di quello che ho letto nei commenti della grande stampa internazionale. Proprio conoscendo i precedenti storici, è infantile immaginare che possa esserci un giorno in cui, con un colpo di bacchetta magica, l’umanità produce un cambiamento radicale e repentino.

Penso che tutte le esigenze in campo siano esigenze reali. Il fatto che la Cina e l’India, dove vive una percentuale altissima degli abitanti dell’umanità, abbiano fatto progressi grazie ai quali nel giro di quarant’anni l’umanità è uscita dall’analfabetismo e non vive più sotto la soglia di povertà, sia pur di poco, è un tema che ci riguarda.

Non possiamo dire: noi stiamo bene, per noi è venuto il momento di metterci a dieta, mettetevi a dieta anche voi. Dobbiamo trovare dei punti d’incontro tra le giuste esigenze che hanno Cina, India e Paesi come loro. Ed è anche nostro interesse che non esistano Paesi di quelle proporzioni, con due miliardi e mezzo di persone che non hanno nessun interesse a salvare il pianeta perché hanno da perdere solo un mondo orribile e brutale di miseria e mortalità infantile.

Come sbagliarono i marxisti a pensare che l’interesse dei capitalisti fosse solo quello di arricchirsi, finché a un certo momento dovettero capire che i capitalisti avevano anche interesse a generare una ricchezza diffusa, che avrebbe creato il mercato e avrebbe permesso loro di arricchirsi, allargando la platea degli arricchiti, molto più che se avessero tratto ogni goccia di plusvalore dalle merci; così oggi l’umanità sta capendo che non può limitarsi a dire: che ci importa di loro?, perché senza di loro, gli abitanti delle zone arretrate del mondo, ci suicidiamo e non garantiamo secoli di vita a noi, ai nostri figli e ai nostri nipoti.

È il nostro interesse, non si tratta di generosità. Per questo dobbiamo trovare un modo, ed è molto complicato, di far coincidere le esigenze di salvaguardia del pianeta con l’emancipazione di popoli di quelle dimensioni. Il discorso vale anche per l’Africa: ho parlato di Cina e India perché sono i Paesi che si sono messi di traverso al recente vertice di Glasgow. 

A Cop26 sono stati commessi errori che hanno impedito di raggiungere risultati più ambiziosi?

Penso che gli errori siano solo quelli che compromettono un processo. Tutte le forzature e le accelerazioni sono inutili, e rischiano di essere anche dannose. Non ho nessuna simpatia per la Cina e tantomeno per l’India, ma è una clamorosa ingiustizia puntare l’indice contro nazioni che vogliono conoscere un progresso come quello che noi ci siamo già messi alle spalle: si tratta di accompagnarli su quella strada e trovare dei punti di incontro.

Così si crea il progresso: continue interruzioni nelle trattative e ripresa del lavoro da parte di gruppi dirigenti di buona volontà. Mettere dei limiti all’uso bellico dell’energia nucleare ha comportato una fatica paragonabile a quella che stiamo compiendo oggi. Non fu facile uscire dalle logiche ancora militari del dopoguerra in piena guerra fredda, quando rischiammo tutti di commettere gli errori già fatti tra le due guerre mondiali, precipitando in un nuovo conflitto.

Era possibilissimo che dalla seconda guerra mondiale si precipitasse in una terza, che la guerra fredda si trasformasse in una guerra rovente. Fu probabilmente il ricordo di quello che era successo alla fine del ventennio tra le due guerre a imporci di non fare lo stesso errore. Adesso, secondo me, la pandemia è un “segnale divino”: ci fa capire che quello che eravamo abituati a vedere nei film di fantascienza è possibile.

Per fortuna la stiamo affrontando, ma dal punto di vista simbolico io do un’enorme importanza alla crisi pandemica. Io e lei, come ogni uomo sulla faccia della terra, ci siamo trovati per settimane, per mesi da soli a riflettere con noi stessi e a constatare che quello che consideravamo impossibile era invece possibile.

Chi mai avrebbe immaginato di trovarsi nella propria vita in una situazione simile? Questo percorso interiore è una grande spinta a compierlo in anticipo su altri terreni, e il primo è proprio quello della sostenibilità.

Da un punto di vista geopolitico, quali evoluzioni dello scenario globale sono auspicabili per una maggiore efficacia nella lotta al global warming?

Che si trovi un equilibrio tra Stati Uniti e Cina e non ci si trastulli con l’idea che non si debba passare da questo. Il rapporto tra Stati Uniti e Cina è molto simile a quello che si stabilì nel dopoguerra tra Usa e Urss.

So che in Europa è di moda pensare che anche noi siamo entrati nel gioco globale come attori. Certo l’Europa è il continente che ha più storia alle spalle, ma i fondamentali sono che esistono Usa e Cina; che la Russia è un Paese importante che gravita nell’orbita cinese; che l’India è un Paese importante che gravita nell’orbita nostra – non parlo di logiche militari, ma di pesi politici.

Mettere tutto questo a profitto significa arrivare a un punto d’incontro in cui l’umanità procede insieme. Abbiamo imparato durante la pandemia a mettere da parte molte tensioni in Europa o in Medio Oriente. Pensi a quanti conflitti sono stati non dico sospesi ma molto ridimensionati. Dobbiamo continuare su quella strada.


Tutto il sistema Rilegno nasce dal bosco, primo anello del sistema. Foto di Giorgio Galimberti.

La sostenibilità, per fortuna, è diventata una sorta di mantra. Ma quanto è grande il gap tra parole e fatti concreti?

Enorme. Speravo che con la pandemia fosse scalfito anche il gap tra le nostre aspirazioni e le idee ricevute, alle quali ci teniamo abbarbicati. Faccio un esempio a proposito dell’uso pacifico dell’energia nucleare.

Tutti quelli che si sono battuti contro il suo utilizzo pensano che sia automatico doversi battere ancora nella stessa direzione, nonostante i progressi in quel campo siano stati clamorosi, e forse siamo vicini al momento in cui davvero avremo centrali – vecchia parola, usiamola per intenderci – di quarta e quinta generazione, molto più sicure, o del tutto sicure, o non più insicure di altre strutture industriali presenti sul territorio.

Eppure vedo la fatica che si fa ad ammetterlo. Ben pochi, tra quanti anni fa si sono battuti contro le centrali nucleari, adesso sono disposti ad approfondire questo tema e a dare atto degli sforzi e dei risultati che hanno prodotto.

La scarsa volontà di cambiare idea è uno dei limiti della questione che stiamo affrontando. Presa una posizione venti, trenta o quaranta anni fa si fa finta che le cose siano ancora così, perché non si vuole ammettere di aver sbagliato.

Un Paese come il nostro, che per ben due volte tramite referendum ha detto no alle centrali, ma poi ha accettato di comprare a caro prezzo energia prodotta da centrali nucleari situate a pochi chilometri dai nostri confini, è un’evidente contraddizione in termini.

Negli anni in cui in Europa stavamo abolendo le frontiere, noi facemmo come se in Abruzzo avessero abolito le centrali nucleari, che però si potevano costruire in Molise, e l’Abruzzo comprava energia dal Molise. Avendo fatto io in passato finta di non accorgermi, un po’ me ne vergogno, perché è una di quelle cose che mettono in discussione l’onestà intellettuale. Che i partiti politici abbiano usato strumentalmente questa materia non sorprende, ma che lo facciano degli intellettuali o comunque persone svincolate dalla politica non è più ammissibile.

Questo mi porta a dire che il primo sforzo che devono fare le persone che pensano è di essere intellettualmente oneste, e svincolate da vincoli politici o di Paese. Uno può essere italiano, amare il proprio Paese, essere di destra o di sinistra, ma di una cosa così evidente deve dare pubblicamente atto. Bisogna fare un discorso chiaro su questo, e devono cominciare le persone intellettualmente libere.

I giovani dei Fridays for Future sono un’esigua minoranza di attivisti? Oppure la consapevolezza dell’urgenza della crisi climatica si sta davvero diffondendo?

Le minoranze che si sono mosse su terreni come la lotta per l’abolizione della schiavitù, il voto alle donne, l’emancipazione femminile, e potrei fare cento altri esempi, sono sempre apparse come gruppi di estremisti dissennati, gente che vedeva solo una parte del problema e non l’insieme: davano anche un po’ fastidio, provocavano insofferenza anche in un osservatore ben disposto. Ma da storico devo dire che la storia ha sempre dato ragione a loro.

Non esiste un solo caso in cui una minoranza mondiale che si è mossa su terreni comprensibili dopo un secolo o due secoli non abbia avuto ragione. Anche i primi che si muovevano a San Francisco nelle lotte per i diritti degli omosessuali sembravano pazzi vestiti in modo strano, una cosa provocatoria, erano giovani con un tono perentorio di sfida; ma passati cinquanta o cento anni la storia ha dato loro ragione. Anche se a volte ci sono delle manifestazioni che mi danno fastidio.

Ho trovato molto fastidioso l’atteggiamento che hanno avuto i militanti di Fridays for Future verso la conferenza di Glasgow, andare lì a dire che era tutto solo bla bla bla. Capirei se si fosse trattato di costruttori di centrali a carbone, ma stavano lì per fare l’interesse dell’umanità. Può darsi che tutto si potesse fare in maniera più veloce, può darsi che i partecipanti fossero vittime di contraddizione se si spostavano su voli privati, facendo all’atmosfera più danni dei vantaggi provocati della conferenza: però capisco che dire che era tutto un bla bla bla possa provocare irritazione. Ma ripeto: la storia ha dato sempre ragione a Greta e torto a quelli che alzavano il sopracciglio.

Il greenwashing è una pratica diffusa? Ritiene che la regolamentazione europea in fieri per contrastarla sia all’altezza della sfida?

È una pratica diffusa, ma non esiste una soluzione unica: più divento adulto più ne diffido. Si tratta di tentare, riprovare, fare senza disprezzare quelli che hanno provato prima: non essendo in grado di dare una risposta definitiva, tendo a fidarmi.

La transizione energetica costa: provocherà disoccupazione, o comunque mancate ricchezze. La facciamo perché abbiamo capito che è nostro interesse farla. Che interesse abbiamo a far finta? Nessuno. Tante volte proveremo a farla e non ci riusciremo, i mezzi si riveleranno inefficaci, ma questo non dipende dalla cattiva volontà degli uomini.

Certo, ci sono degli imbroglioni che quando vengono scoperti devono essere processati o comunque indicati al pubblico disprezzo, ma la maggior parte delle persone che dedicano energia a questo lo fanno in buona fede, cercando soluzioni difficili da trovare.

Se no come si spiega che per liberarsi dalla schiavitù tanti Paesi, non solo gli Stati Uniti, abbiano dovuto attraversare infiniti passaggi complicati, guerre come quella di secessione, che prima delle guerre mondiali fu tra le più atroci per le proporzioni, i morti, il fatto che era una guerra civile. Perché morire a centinaia di migliaia e non saltare tutti i passaggi per arrivare subito alla definizione? Perché i diritti civili, così come una grande sfida come la battaglia sul clima, sono appunto complessi. Le facilonerie sono tollerabili se fanno parte del bagaglio di Greta, ma non delle persone adulte. 

A quale periodo storico o a quali temi della storia possiamo guardare per una riflessione utile ad affrontare il nostro cambiamento?

La fine del Trecento e l’inizio del Quattrocento, cioè il passaggio dal secolo della peste nera e della guerra dei cent’anni al mondo del rinascimento. Studiando a fondo quel periodo storico ci si rende conto che nel Trecento l’umanità pensò di essere precipitata in un gorgo da cui non si sarebbe più riavuta.

Poi invece iniziò un’epoca luminosa. La storia si è ripetuta tra il Seicento e il Settecento, sono due passaggi che hanno molti punti in comune – tant’è che sia nel Quattrocento sia nel Settecento l’umanità pensò a se stessa come se si fosse lasciata alle spalle un Medioevo.

Nel momento più buio si mettono i semi del processo successivo: sta accadendo qualcosa di simile con la pandemia, i semi gettati oggi dovrebbero produrre effetti benefici dove meno ce lo aspettiamo, cioè proprio sul terreno della sostenibilità ambientale. La peste ha prodotto la migliore letteratura, civilizzazione, quadri, dipinti, affreschi meravigliosi, musica, e le radici furono gettate in quel momento in cui l’umanità, o almeno l’Europa, visse come noi abbiamo vissuto la pandemia, cioè terrorizzata. Il terrore può essere un richiamo alle energie che ti consentono di fare un salto.

Eppure non c’era questa consapevolezza, il mondo del Rinascimento non si accorse che lo stava vivendo. Infatti il Quattrocento si chiude con i due affreschi più famosi, due giudizi universali: quello di Luca Signorelli del Duomo di Orvieto, a cavallo tra Quattrocento e Cinquecento, e quello di Michelangelo, la Cappella Sistina, realizzato tra il 1536 e il 1541. I due affreschi sono il simbolo di una percezione da giudizio universale, ma le luci e alcuni elementi fanno intuire la consapevolezza di essere passati nel mondo nuovo.


Paolo Mieli è stato direttore de La Stampa e del Corriere della Sera e presidente di RCS Libri.
Come storico, è autore di saggi, conduttore di programmi televisivi e curatore di collane editoriali. 

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