29 Mar 2022

Dalla genetica un aiuto contro il climate change

Piante adattate al cambiamento climatico, fotosintesi più efficiente per assorbire più CO2: a che punto è la ricerca e cosa manca.

Intervista a Michele Morgante

La genetica forestale può aiutarci nella lotta ai cambiamenti climatici?

Siamo nell’area della genetica dove forse abbiamo fatto meno progressi, quella dei caratteri complessi. L’adattamento al clima, cioè la capacità delle piante di crescere in condizioni climatiche diverse, rientra tra i caratteri che hanno una notevole complessità, ossia sono controllati da tanti geni e soggetti a una notevole influenza di tipo ambientale. Non sappiamo ancora quanti e quali siano questi geni; e per poter dire se la genetica possa o meno dare un aiuto nella lotta al climate change bisognerebbe avere queste informazioni.

Detto questo, sicuramente il miglioramento genetico può dare un aiuto, perchè la selezione artificiale ha dimostrato di essere in grado di agire sui caratteri complessi anche in assenza di tutte le informazioni su quanti sono i geni, dove sono e quali sono, semplicemente sulla base di una selezione che va a guardare le caratteristiche fenotipiche, quelle visibili, e accelera il progresso che sarebbe dovuto alla selezione naturale.

Nelle piante forestali, però, la selezione artificiale che tanto successo ha avuto nelle piante di interesse agrario trova una serie di ostacoli in più.

Di che tipo?

Soprattutto legati al tempo di generazione. Molte piante forestali hanno bisogno di almeno vent’anni per passare da una generazione all’altra. Detto questo, le piante hanno anche dimostrato una notevole capacità di adattamento in passato. Molte di quelle che popolano le nostre aree climatiche, alla fine dell’ultima glaciazione, ovvero non molto tempo fa in termini evolutivi, erano ridotte a pochi nuclei in quelle che si chiamano zone rifugio.

Questi rifugi erano nella zona mediterranea, in Spagna, in Grecia. Da lì le piante si sono poi ridiffuse, circa 15-17mila anni fa, e hanno ricolonizzato tutto il continente europeo, risalendo verso nord man mano che i ghiacci sparivano; in questo processo si sono adattate a condizioni climatiche molto differenti. Oggi un abete rosso della Svezia o della Norvegia vive in condizioni sia di clima sia di fotoperiodo molto diverse da quelli in cui vive in Italia. Quindi al loro interno le specie forestali hanno una notevole quantità di variabilità genetica che permette loro di adattarsi in tempi abbastanza rapidi a condizioni che cambiano.

Si tratta di capire se la velocità del cambiamento climatico va ben al di là della capacità delle popolazioni naturali di rispondere al cambiamento. C’è poi un altro problema particolarmente eclatante legato al cambiamento climatico.

Quale?

Quello della comparsa di nuovi patogeni. In parte è legato alle mutate condizioni climatiche, in parte alla diffusione di patogeni senza precedenti dovuto all’aumento dei commerci mondiali, quindi alla circolazione di merci e di persone, che possono trasportare anche patogeni. Oggi stiamo vedendo una continua invasione di nuovi patogeni, che potrebbero rappresentare una vera minaccia, perchè come già ci indicano alcuni esempi, anche nelle specie forestali, potrebbe essere difficile trovare una risposta in tempi rapidi.

È possibile accelerare i tempi di adattamento delle specie forestali al cambiamento climatico?

Ci sono due opzioni. Una è più facilmente accettata da un punto di vista ecologico – ambientale: quella di accelerare il processo della selezione artificiale con la procedura della selezione assistita da marcatori. Se so dove sono i geni che controllano un certo carattere, posso selezionare più efficacemente non sulla base dell’aspetto visibile, cioè del fenotipo, che è la risultanza dell’assetto genetico e anche dell’ambiente, ma posso selezionare direttamente sulla base dell’assetto genetico. Se so quali sono le varianti che rendono la pianta più adatta a una temperatura più alta vado a selezionare le piante che portano queste varianti.

Con questo posso accelerare notevolmente i tempi della selezione artificiale; questa è una opzione su cui ci sono poche riserve anche da parte degli ambientalisti più estremi.

E l’altra?

È quella aperta dalla scoperta di Emmanuelle Charpentier e Jennifer A. Doudna, che hanno ricevuto lo scorso anno il premio Nobel per la chimica: l’editing del genoma Crispr-Cas9. Se per le piante forestali riuscissimo a saper quali sono i geni con le caratteristiche che ci interessano, potremmo intervenire con quella tecnologia estremamente raffinata e generare nuove varianti , che potrebbero consentire alle piante di crescere meglio nelle mutate condizioni climatiche. Ma sulla possibilità di utilizzo di questa tecnologia ci sono due incognite.

Una è scientifica: la tecnologia è potentissima ma richiede forti basi di conoscenza. Per poterla applicare dobbiamo sapere quali sono i geni che ci interessano, quindi occorre un grande sforzo di ricerca per andarli a cercare, anche all’interno delle singole basi di DNA.

Il secondo problema secondo me è più grosso, perché i progressi della scienza molto spesso dipendono solo dall’entità dei finanziamenti; e c’è il problema dell’accettazione da parte del pubblico. Questa tecnologia, pur producendo mutazioni indistinguibili dalle mutazioni spontanee che avvengono in natura, viene vista da alcuni come una tecnologia invasiva legata all’ingegneria genetica, e in quanto tale da rifiutare. Oggi è in corso in Europa una grande discussione su quale debba essere la posizione della Commissione europea su queste tecnologie. Vedremo dove questa discussione porterà, se porterà a una regolamentazione che non si concentra sul processo tecnologico ma sul prodotto, come chiede da tempo la comunità scientifica, oppure se verrà messo al bando il processo senza preoccuparsi del prodotto, come chiedono molte organizzazioni ambientaliste.

È possibile intervenire con la genetica per creare alberi che assorbano più CO2?

Dobbiamo capire quale materiale riproduttivo usare per evitare di ritrovarci con materiale poco adattato alle condizioni in cui lo mettiamo a crescere; sicuramente va fatta un’analisi di cosa si pianta, soprattutto dal punto di vista genetico. La ricerca di piante che assorbano più CO2 è un ambito di studio molto importante. Si tratta di capire come rendere più efficiente la fotosintesi, un processo che conosciamo bene, ma su cui finora non si è intervenuti molto in termini di efficienza. Il miglioramento genetico, soprattutto nelle specie di interesse agrario, ha agito su tanti caratteri, ma non sembra avere influito sull’efficienza della fotosintesi, anche se appiamo che ci sono margini per rendere il sistema più efficiente. Se ci si riesce, si arriva a catturare più CO2 per unità di tempo. Ci sono grandi sforzi in tal senso, specie negli Stati Uniti, finanziati in parte dalla Bill & Melinda Gates Foundation. I gruppi di ricerca li abbiamo anche qui. L’importante è metterli in condizione di lavorare.

Su quali aspetti si lavora in particolare per migliorare il processo fotosintetico?

Perdite di efficienza nella fotosintesi sono legate ai meccanismi di adattamento che le piante hanno alla variazione dell’intensità luminosa. Si pensi a una giornata nella quale il cielo passa da azzurro a nuvoloso. Inizialmente la pianta mette in atto una serie di meccanismi che servono a proteggerla dagli effetti dell’eccesso di luminosità. Poi, quando passa da condizioni di elevata a bassa luminosità, ci mette un tempo non indifferente per riadattarsi. Tutti questi meccanismi, che servono a proteggere il sistema fotosintetico della pianta, causano una perdita di efficienza. Su alcune piante si è visto che è possibile intervenire su questi meccanismi di adattamento per renderli più veloci.

Questo potrebbe aiutarci a produrre piante che catturano più CO2.

Michele Morgante è professore ordinario di genetica all’Università di Udine e Direttore Scientifico dell’Istituto di Genomica Applicata. E’ presidente dell’Associazione Genetica Italiana e membro dell’Accademia Nazionale dei Lincei.

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