13 Lug 2023

Climate change? Ce l’abbiamo sotto gli occhi

Oggi quello che la scienza dice da decenni trova riscontro nell’esperienza quotidiana. L’importante è spiegarlo e comunicarlo bene.

intervista a Elisa Palazzi

A che punto siamo nel climate change e nella sua percezione da parte di noi tutti?

Da quando si è cominciato a parlare di cambiamento climatico, oggi per la prima volta i dati che la scienza produce da decenni trovano riscontro nell’esperienza quotidiana. A meno di rifiutare l’evidenza, non possiamo non accorgerci che sta accadendo qualcosa. Vediamo cambiamenti molto rapidi, sempre più frequenti, anche se non riusciamo ancora a collegare tutti i puntini. Il tempo meteorologico sembra impazzito: ci sono alluvioni, ma i mesi precedenti sono stati incredibilmente siccitosi. Non riusciamo bene a capire quale sia il legame con il cambiamento del clima e come questo possa influire sulla meteorologia: però questo legame c’è. Anche i non esperti cominciano a osservare, a sentire sulla pelle i cambiamenti e a porsi qualche domanda in più.

Se si aprono gli occhi, che cosa si vede?

Ciò che è evidente. Tutto parte dal riscaldamento globale, l’aumento della temperatura media negli ultimi 150 anni. Sembra un aumento piccolo, da 1,1 a 1,2 gradi dal 1850 a oggi. Una crescita irrisoria per la nostra percezione, che si basa sull’esperienza quotidiana delle variazioni meteorologiche, in genere molto più intense. Molti si domandano perché dovremmo preoccuparci di un solo grado in più. Ma la scienza ci insegna che un aumento di oltre un grado non è affatto poco su scala climatica, perché si tratta di un dato medio, valutato su una scala temporale lunga. Un aumento di un grado è tanto, specie se rapportato alla rapidità con cui si è verificato. Nella storia della Terra ci sono stati altri aumenti di temperatura, ma mai così rapidi. L’incremento della temperatura è un dato incontrovertibile su cui la comunità scientifica è concorde, e non lo negano nemmeno i più incalliti negazionisti.

Che cosa dovrebbe farci aprire gli occhi?

Quel che la scienza ci racconta sull’aumento della temperatura, lo sperimentiamo tutti i giorni: l’estate inizia prima, le ondate di calore estive sono più frequenti. Non c’è bisogno di termometro per vedere che i ghiacciai si fondono e si riduce la risorsa neve. Da studiosa dei fenomeni di alta quota osservo che la stagione della neve si è accorciata; la neve si accumula in estensioni inferiori e non riesce a creare uno strato protettivo sopra i ghiacciai. Così, quando arriva il caldo, intacca il ghiaccio stesso, che deriva dagli accumuli precedenti. Il ghiacciaio sarebbe in equilibrio se d’estate fondesse tutta la neve caduta. Invece, sistematicamente, tutti i ghiacciai del mondo si ritirano. Le Alpi non fanno eccezione, talvolta con eventi più rapidi e impattanti come quello della Marmolada. Vanno contestualizzati, ma non si possono distaccare dal riscaldamento globale, e quindi dalla mancanza di neve; gli eventi estremi si sono estremizzati. Lo stesso vale per il ciclo dell’acqua. Da un lato c’è la siccità: il 2022 è stato un anno esemplare, caratterizzato da siccità non solo d’estate, ma anche in mesi in cui non ce la si aspetterebbe. Ma accanto alla siccità ci sono quelle che vengono impropriamente definite “bombe d’acqua”.

Perché impropriamente?

“Bombe d’acqua” è un termine che sembra rimandare a una natura matrigna, mentre non fa che rispondere alle sue leggi. L’atmosfera si carica di vapore acqueo a causa dell’evaporazione dei mari caldi, e il Mediterraneo è quello che si è scaldato di più. La termodinamica fa sì che si creino nubifragi e precipitazioni intense, che possono causare alluvioni. In generale c’è una intensificazione del ciclo idrogeologico. Gli eventi di caldo estremo rimandano al riscaldamento globale in modo più intuitivo; ma possono accadere anche eventi di gelo. I negazionisti si sono aggrappati alle ondate di gelo come prova del fatto che non esiste il global warming. Ma così si confonde il tempo meteorologico con il clima: il meteo è quel che succede qui e ora, il clima è la statistica di questi eventi; non possiamo confondere un accadimento di una settimana con il cambiamento climatico. La statistica ci fa capire che c’è un cambiamento climatico: quella degli eventi freddi, infatti, si è ridotta. Gli eventi estremi li sentiamo, possono provocare conseguenze disastrose anche per la nostra vita, ci fanno capire che tali questioni ci riguardano anche molto da vicino e richiedono un’azione preventiva. Altri cambiamenti, come quelli della biodiversità, che vanno a braccetto con quelli climatici, sono forse più difficili da percepire. Quel che sta accadendo sul suolo o nel sottosuolo lo conoscono solo gli esperti, eppure è fondamentale, perché garantisce la salute dell’ecosistema e quindi anche la nostra.

Lei è anche una divulgatrice, coautrice del podcast Bellomondo con Federico Taddia. Come si fa a comunicare il climate change in modo efficace?

Sto cercando di capirlo, si impara via via. Il pubblico è molto cambiato, ti costringe ad alzare l’asticella, è più sensibile rispetto a qualche anno fa. Questo anche grazie alla rivoluzione attuata da giovani preoccupati e arrabbiati, che sono diventati propositivi e coinvolgenti: trovo molto positivo che questo sia successo. Trattare le persone come vasi da riempire di numeri, sebbene la scienza abbia cercato di rendere i numeri più fruibili (per esempio con le warming stripes, che rappresentano l’aumento della temperatura nei vari Paesi), è un approccio poco efficace. Credo che faccia più presa raccontare storie di persone reali. Storie di persone vicine o lontane che stanno vivendo sulla loro pelle la crisi climatica, o che si sono adattate. La storia di un agricoltore che decide di cambiare colture, pensando alle nostre zone e alla siccità che abbiamo vissuto, sarà più immediata da capire. Le storie delle persone ci fanno pensare che certi fenomeni ci riguardano direttamente. Quello che ci muove sono le emozioni. Può essere utile anche raccontare storie di noi scienziati e scienziate, far capire il nostro percorso, la nostra responsabilità sociale, che non può rimanere dietro la scrivania. Quel che si studia va comunicato e divulgato. Si deve fare in modo che la coscienza collettiva si traduca in pressione sulla politica e quindi in azione.

E poi che altro?

È importante anche non rinunciare al rigore: le persone si accorgono se uno scienziato sa semplificare senza banalizzare, filtrare la complessità, accompagnare la comprensione con delicatezza, sperimentare nuovi linguaggi cercando la parola giusta. E poi è bene mischiarsi a mondi diversi come quello dell’arte, della musica e del teatro. Molti artisti stanno mettendo in scena i cambiamenti climatici: una modalità che fa emozionare.

abc

Elisa Palazzi
Elisa Palazzi è docente di Fisica del Clima presso l’Università di Torino

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