18 Giu 2021

Chi spreca, paga

Il lockdown ha ridotto le emissioni, ma occorrerebbero modifiche strutturali e correttivi economici per ottenere più risultati

Intervista a Luca Mercalli

I provvedimenti globali per ridurre le emissioni di gas a effetto serra continuano a essere troppo lenti.

Gli anni passano e la CO2 cresce, e con essa la temperatura del pianeta. L’accordo di Parigi stenta a fare i passi attuativi e solo la caduta di Trump e l’ascesa alla Casa Bianca di Biden sono motivi di cauto ottimismo per una rinnovata presenza degli Stati Uniti al tavolo dei negoziati climatici.

Ma di fatto, negli ultimi settant’anni, l’unica riduzione consistente delle emissioni l’abbiamo ottenuta non con la scienza, non con la cultura, non con il diritto internazionale, non con i comportamenti virtuosi, bensì con il lockdown della crisi pandemica da coronavirus, che per il 2020 ha fatto calare le emissioni di circa il 9 per cento. Un risultato ottenuto però sotto la sferza dell’emergenza sanitaria e a prezzo di perdite umane ed economiche.

Bisognerebbe trovare il modo di rendere strutturali alcune acquisizioni tecnologiche apprese durante il confinamento, per mantenere il calo dell’uso di combustibili fossili: un esempio pratico consiste nello sviluppare sempre meglio il telelavoro, che permette di evitare molti trasporti aerei e automobilistici, ottenendo, oltre a un minor rischio climatico, anche un miglioramento della qualità dell’aria urbana e della salute dei cittadini.

L’altra pista da seguire è quella delle energie rinnovabili, dell’efficientamento energetico dei processi produttivi e della riduzione dello spreco di materie prime attraverso una sempre maggior penetrazione dei concetti dell’economia circolare.

Gli oggetti si dovrebbero sempre più poter riparare e aggiornare senza sostituirli completamente, i materiali di cui sono composti si dovrebbero poter riciclare più volte, ma siccome non tutto è riciclabile e riparabile, è necessario fare uno sforzo di progettazione per cambiare radicalmente alcuni processi e alcuni oggetti, con quello che si chiama ecodesign.

Se oggi un telefonino quando è obsoleto si butta via ed è difficile sia da riparare sia da riciclare, se progettato in modo innovativo potrebbe essere più facilmente scomponibile in unità modulari. Gli imballaggi potrebbero essere ottimizzati e resi più versatili, magari introducendo una serie di cauzioni e di meccanismi di reso proprio come si fa per i pallet, in modo da incentivarne il riutilizzo invece del macero o peggio dell’incenerimento.

Ma il problema maggiore della sostenibilità ambientale è che si fa presto a dare una mano di vernice verde (greenwashing), ma poi chi controlla che dietro le parole ci siano effettivamente risultati certificati da misure fisiche? È fondamentale che per tutti i processi, i servizi e gli oggetti si possa risalire a una carta d’identità energetica e ambientale: quanti kg di CO2 fossile sono stati emessi nell’intero ciclo produttivo? Quanti kg di materie prime si sono estratti dai giacimenti terrestri, siano essi minerari, agricoli, forestali, ittici? Quanto potrà essere riciclato? Senza dati misurabili la sostenibilità diviene soltanto una vuota etichetta, un’ambigua operazione di marketing. Esempio: l’acqua in bottiglia che si veste di verde perché confezionata con la bioplastica compostabile. Ma non è forse proprio l’intero commercio d’acqua, con i suoi trasporti su gomma su e giù per migliaia di chilometri, a essere insostenibile? Semplicemente la vera scelta ecologica sarebbe bere l’acqua del rubinetto!

Economia circolare non deve dunque essere una scusa per continuare ad aumentare la produzione di qualsiasi oggetto, purché sia fatto con metodi “verdi” o presunti tali: si deve anche avere il coraggio di potare la pianta infestante dell’eccesso, del superfluo, del capriccioso. Un compito difficilissimo, in quanto, al di là del buon senso, quale sarebbe il giudice imparziale in grado di stabilire cosa è degno di essere prodotto e cosa no?

Ed è qui che entrerebbe nuovamente in azione una contabilità fisica: una carbon tax associata a una waste tax, che in modo trasversale e super partes penalizzerebbero i consumi più impattanti selezionando via via materiali e servizi più virtuosi in base agli indicatori fisici. In breve, se produci tanta CO2 o tanti rifiuti, paghi di più. Ovvero, sarebbe sempre il famoso “mercato” a decidere la sopravvivenza del più adatto, ma a condizione di introdurre un correttivo universale indispensabile: che i costi energetici e ambientali “sporchi” siano subito inclusi nel prezzo e non scaricati come “esternalità negative” sulle generazioni future, che rischiano di trovarsi un pianeta ostile, con un clima severo, un inquinamento pervasivo e un depauperamento irreversibile delle risorse. Così quella bottiglietta d’acqua oggi venduta a pochi centesimi di euro costerebbe assai di più se integrasse i costi della produzione e smaltimento della plastica, sia pur biologica, del gasolio bruciato per il suo trasporto, e della macchinetta frigorifera distributrice esposta al sole di una stazione ferroviaria! Tutto questo invisibile fardello termodinamico per un semplice sorso d’acqua fresca. Ma se lo paghi, forse lo eviti.


Luca Mercalli è presidente della Società meteorologica italiana, climatologo e docente di sostenibilità ambientale.

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