25 Feb 2022

Cattura e stoccaggio della CO2

#WeareWaldenFocus

La discussione sulle tecnologie di cattura e stoccaggio della CO2 è accesa e vivace. Queste tecnologie sono, secondo l’Agenzia internazionale dell’energia (Iea), uno strumento fondamentale per raggiungere le zero emissioni nette entro il 2050. Per gli ambientalisti invece sono un cavallo di Troia dell’industria fossile per auto – perpetrarsi.
Ma ci può essere un ruolo utile seppur transitorio nel gestire le emissioni di settori hard-to-abate, come acciaierie, cementifici e raffinerie? Secondo l’amministrazione Biden, sì. Certo si tratta di vigilare affinché queste tecnologie non siano un modo per allungare la vita al petrolio. Senza che ci sia alcun equivoco su un punto: i combustibili fossili non hanno futuro. 

Cosa è il Carbon Capture Storage (CCS) e la Carbon Capture and Utilisation (CCU)

Il funzionamento del CCS, carbon capture storage, e della CCU, in cui allo stoccaggio si sostituisce l’utilizzo, è stato spiegato alla rivista Walden di Rilegno da Maurizio Masi, professore ordinario di Chimica fisica applicata al Politecnico di Milano:

Le tecnologie di cattura del carbonio ad assorbimento chimico sono molto consolidate in presenza di una fonte di CO2 concentrata, come la ciminiera di una centrale elettrica. I fumi vengono trattati con una soluzione alcalina: oggi si tende a utilizzare un’acqua leggermente alcalinizzata, mentre il processo chimico tradizionale usa le etanolammine, che sono molto efficienti ma hanno un impatto ambientale più forte. Una volta che le etanolammine hanno assorbito la CO2 dai fumi, le si scalda e la CO2 viene rilasciata: si ottiene così una corrente di CO2 quasi al 100%, che viene convogliata in una pipeline e portata all’interno di un giacimento esaurito di metano. Si tratta di un ottimo serbatoio, che non ha dispersione nell’ambiente: estraendo il metano si è creata una spugna vuota, che può essere riempita di anidride carbonica“.

Il concetto di tecnologia – ponte in grado di mitigare gli effetti del cambiamento climatico si ritrova già nelle premesse della direttiva dell’Unione Europea 31 del 2009, inserita nel pacchetto Clima-energia, per definire un quadro giuridico comune continentale per lo stoccaggio geologico sicuro della CO2.
Nel 2013 l’Unep, il Programma dell’Onu per l’ambiente, nel suo Emission Gap Report scriveva: «Più gli sforzi di mitigazione decisivi sono rinviati nel tempo, maggiore sarà la necessità di ricorrere alle tecnologie a emissioni negative nella seconda metà del 21esimo secolo, per mantenere la media globale dell’aumento della temperatura al di sotto dei 2°C», facendo quindi riferimento alle tecnologie a emissioni negative di cui la Ccs fa parte. 

Prospettive al 2050, con o senza tecnologie-ponte

Secondo il report dell’Agenzia internazionale dell’energia (Iea) “Net Zero by 2050. A Roadmap for the Global Energy Sector”, pubblicato a maggio dell’anno scorso, il mancato sviluppo di questa tecnologia renderebbe molto più difficile raggiungere le zero emissioni nette entro il 2050
La Iea stima che entro il 2030 a livello globale verranno catturate 1,6 giga tonnellate (Gt) di CO2 all’anno, che salgono a 7,6 Gt nel 2050; circa il 95% della quale sarà stoccato in depositi geologici permanenti. Nel settembre 2020 la stessa Iea ha pubblicato un rapporto dedicato alla materia: Ccus in Clean Energy Transitions, in cui dichiara che Ccs e Ccu saranno indispensabili per azzerare le emissioni nette di gas serra e sollecita maggiori investimenti.

Promesse mantenute? si va a rilento…

L’Agenzia internazionale dell’energia riconosce che questa tecnologia finora non ha mantenuto le promesse. «Sebbene la sua importanza per il raggiungimento degli obiettivi climatici sia stata riconosciuta da tempo, la sua diffusione è stata lenta: gli investimenti annuali in Ccus hanno sempre rappresentato meno dello 0,5% degli investimenti globali in energia pulita e tecnologie di efficienza» si legge nel rapporto. «Obiettivi climatici più forti e incentivi agli investimenti stanno dando nuovo slancio al Ccus. Piani per più di 30 nuovi impianti Ccus integrati sono stati annunciati dal 2017, soprattutto negli Stati Uniti e in Europa, anche se sono previsti progetti anche in Australia, Cina, Corea, Medio Oriente e Nuova Zelanda. I progetti in fase avanzata di pianificazione rappresentano un investimento totale stimato di oltre 27 miliardi di dollari, quasi il doppio degli investimenti in progetti commissionati dal 2010» .

Secondo la Iea, le tecnologie Ccus offrono un significativo valore strategico nella transizione: «possono essere adattate alle centrali elettriche e industriali esistenti, che altrimenti potrebbero ancora emettere 8 miliardi di tonnellate di anidride carbonica nel 2050; affrontare le emissioni in settori dove altre opzioni tecnologiche sono limitate, come nella produzione di cemento, ferro e acciaio o prodotti chimici, e per produrre combustibili sintetici per il trasporto a lunga distanza (in particolare l’aviazione); abilitare la produzione di idrogeno a basso costo e a basse emissioni di carbonio».

Gli Stati Uniti considerano le CCS importanti

La stessa amministrazione Biden ha mostrato di voler puntare sulle tecnologie di cattura e stoccaggio del carbonio. Shuchi Talati, capo dello staff dell’Office of fossil energy and carbon management composto da circa 750 dipendenti federali, con un budget di quasi un miliardo di dollari, ha dichiarato alla Mit Technology Review: “Dove possiamo passare alle rinnovabili, vogliamo fare quella scelta. Ma dove non possiamo, la cattura e lo stoccaggio del carbonio hanno un ruolo davvero importante da svolgere. Con industrie come il cemento, sappiamo che la Ccs è essenziale per ridurre le emissioni”.
La stessa rivista si schiera, spiegando: «Sarà molto più difficile e costoso ridurre le emissioni e prevenire pericolosi livelli di riscaldamento senza la cattura e la rimozione del carbonio, in particolare nelle industrie pesanti, dove esistono poche altre opzioni».

L’opinione degli ambientalisti

Eppure le perplessità restano, specie nella galassia ambientalista. Nel luglio dell’anno scorso il Wwf ha pubblicato uno studio dal titolo inequivocabile: “Ambiguità, rischi e illusioni della Ccs-Ccus. Criticità connesse allo sviluppo in Italia di una tecnologia più rischiosa che utile”. «La Ccus (Carbon capture usage and storage) non rappresenta un’opzione significativa nella strategia di decarbonizzazione nelle quantità e nei tempi richiesti dall’Accordo di Parigi. Del resto, nemmeno dopo aver ricevuto sussidi pubblici considerevoli la relativa filiera si è attivata in modo promettente, ed è inopportuno indirizzarvi nuove risorse pubbliche, soprattutto in relazione a progetti di dimensione commerciale» si legge nel rapporto del Wwf.
Nelle critiche degli ambientalisti ricorre la segnalazione di due rischi: la possibilità di microsismi e il problema della fuoriuscita del carbonio dal sottosuolo. «La Ccus non regge il confronto rispetto alle soluzioni di decarbonizzazione attraverso l’annullamento delle emissioni climalteranti alla fonte, anche a causa delle incertezze, dei rischi e dei costi che la Ccus sposta sulle generazioni successive. Per esempio, riguardo allo stoccaggio geologico della CO2, disastri come quelli di Trecate e della Deepwater Horizon mostrano che non è sufficiente la stabilità geologica a scongiurare fughe completamente incontrollabili del contenuto del reservoir».
Ma la vera contrarietà di fondo risiede nel vedere queste tecnologie come uno strumento utilizzato dalle multinazionali degli idrocarburi per allungare la vita all’industria fossile.

«Un limite strategico enorme della Ccus è la sua dipendenza dall’industria petrolifera, soprattutto rispetto allo stoccaggio della CO2. Infatti, gli unici esempi di applicazioni relativamente mature riguardano l’industria dell’upstream petrolifero, un settore per il quale è oggi importante gestire il phase-out, limitando nuovi investimenti incoerenti, più che indirizzare nuove risorse. Alimentare invece la sinergia tra coltivazione di idrocarburi e stoccaggio di CO2 significa prospettare una visione quantomeno strabica della decarbonizzazione. Più in generale, la costruzione di un’industria Ccus è fortemente associata, per sinergie tecniche ed economiche, alla filiera del fossile. Un legame che implica che il sostegno alla Ccus rischia di essere un modo per tenere in vita le filiere delle fossili compensandone solo in maniera poco significativa le emissioni-serra. Più che un’opzione per la decarbonizzazione, la Ccus rappresenta quindi un’estensione delle attività dell’industria fossile con la prospettiva di procrastinare il decommissioning di impianti della propria filiera, e con esso le bonifiche relative» si legge ancora nel rapporto dl Wwf.

L’Eni progetta di realizzare a Ravenna il più grande centro di cattura e stoccaggio di anidride carbonica al mondo. Ma le critiche degli ambientalisti investono anche il progetto dell’Eni: «Un uso massiccio di Ccus, quand’anche fosse possibile, eluderebbe obiettivi ecologici ulteriori alla decarbonizzazione ma altrettanto rilevanti soprattutto a livello regionale, in primis il disinquinamento (quasi 66 mila morti premature in Italia per la sola scarsa qualità dell’aria) che richiede la sostituzione dei processi di combustione con usi elettrici d’energia e produzione elettrica senza emissioni dannose. Il progetto di Ccus a Ravenna esemplifica tutte queste contraddizioni». A essere contestato è anche l’obiettivo di produzione di idrogeno cosiddetto blu legato al progetto ravennate. «Il Ccs è al centro del progetto Eni di Ravenna il cui obiettivo strategico è la produzione di “idrogeno blu”, cioè a basse emissioni di gas serra grazie alla cattura e stoccaggio della CO2. L’idrogeno viene oggi prodotto trattando il gas metano con vapore ad alta temperatura e pressione (un processo noto come Steam Methane Reforming). Si tratta di un processo molto energivoro – viene bruciato di solito gas per produrre questo vapore ad alta temperatura – ed emessa una grande quantità di emissioni non solo per l’uso di energia ma soprattutto per il processo che libera idrogeno ma produce CO2» ha scritto recentemente Greenpeace.

In conclusione…

Queste le posizioni in campo, autorevolmente favorevoli o contrarie. Giusto che ognuno si faccia la propria opinione. Noi ci limitiamo a osservare che secondo un punto di vista laico, sarebbe discutibile rinunciare ai benefici pur transitori offerti dalle tecnologie Ccs, per timore che il loro utilizzo celi l’intento di procrastinare all’infinito l’uso delle fonti fossili. In una situazione di emergenza, com’è quella climatica, ogni contributo al raggiungimento dello scopo può essere di grande importanza. Un’apertura in tal senso si trova perfino nel rapporto del Wwf, laddove non esclude l’utilizzo del Ccs in settori di difficile carbonizzazione, come l’industria del cemento: «Se nel caso della de-carbonizzazione dei fumi di centrali termoelettriche l’inefficienza del CCS è palese, soprattutto in impianti a gas dove la concentrazione di CO2 nei fumi è minore, anche per la maggior parte dei settori industriali non c’è sufficiente evidenza per affermare che la CCUS sia più promettente rispetto ad altre innovazioni tecnologiche. Questo non deve leggersi necessariamente come una contrarietà a priori alla ricerca di base prototipale di applicazioni Ccus in connessione ad alcuni settori hard to abate, come il cemento, nel caso in cui si registrino ritardi nelle tecnologie low carbon adatte allo specifico».

R.V.

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