02 Set 2024
Biodiversità, l’altra sfida
Ecosistemi in crisi, pandemie, specie infestanti. Quanto ci costa, che effetti produce, come si combatte una perdita di specie autoctone ormai al 30 per cento.
Intervista a TELMO PIEVANI
Si parla tanto di climate change, poco di perdita della biodiversità: non trova?
È vero, la crisi della biodiversità è l’altro lato dell’Antropocene, che però attira meno attenzione mediatica. Tutti parliamo di climate change, giustamente, perché è la grande dinamica di cambiamento globale della regolazione del pianeta, quindi è importantissimo. Però c’è anche la crisi della biodiversità, che ha delle ragioni indipendenti ma è strettamente connessa con il cambiamento climatico, purtroppo, in modo negativo. La crisi della biodiversità ha delle radici lontane, proprio come il climate change. È legata a pochi fattori: la deforestazione, il più importante di tutti, ricordiamolo; le specie invasive, molto sottovalutate ma che sono la seconda causa in assoluto di perdita delle specie autoctone; poi quelli che ci aspettiamo: la crescita della popolazione, l’inquinamento, la caccia e la pesca indiscriminate.
Che effetti ha prodotto questo complesso di cause?
Una riduzione ormai del 30 per cento, a volte con picchi del 40-45 per cento, della biodiversità in tutti i gruppi di animali. In alcuni casi climate change e riduzione della biodiversità si alimentano a vicenda. Per esempio in quello della deforestazione: se deforesti stai contribuendo immediatamente al climate change perché stai distruggendo alberi che assorbono CO2 e la immagazzinano nel legno; spesso hai anche incendi e quindi un rilascio di quella CO2. Al contempo hai la distruzione di ecosistemi che contengono la più alta biodiversità. In più il climate change peggiora tutte le altre cause: per esempio favorisce la diffusione di specie invasive. Così l’Italia, un Paese che si sta tropicalizzando, diventa un Paese facilmente colonizzabile da specie quali insetti nocivi. Quindi il climate change agisce peggiorando le cause di perdita di biodiversità. Sono distinti in generale, ma fortemente interconnessi e purtroppo si alimentano a vicenda.
Quali sono le conseguenze che possono derivare da questa perdita di biodiversità?
Sul piano utilitaristico, sono conseguenze economiche molto gravi: la biodiversità offre dei servizi cosiddetti ecosistemici gratuiti, perché non li paghiamo, che purtroppo non hanno ancora un computo economico. Quantificare il valore di questi servizi è una delle grandi urgenze dei prossimi anni. La distruzione della biodiversità li rende più difficili, più rari e quindi, per una legge ben nota dell’economia, più cari: se riduciamo la biodiversità questi servizi dobbiamo pagarceli, diventano più rari e preziosi.
Ci fa un esempio?
Se c’è una riduzione, come sta succedendo, di circa il 30 per cento delle popolazioni di insetti impollinatori, l’impollinazione, servizio fondamentale per l’economia primaria umana, diventa più rara e quindi bisogna pagarla. In Asia alcune colture hanno già bisogno di impollinatori artificiali, o meglio umani, quindi bisogna pagare persone che fanno questo lavoro e quei prodotti costeranno molto di più. La riduzione dei servizi ecosistemici ha un costo elevatissimo: quasi il 70 per cento della produzione agricola dipende direttamente o indirettamente da insetti impollinatori. Ma vale lo stesso per la purificazione dell’acqua. La biodiversità delle acque dolci è una delle più minacciate in assoluto; sull’Europa negli ultimi cinquant’anni si è ridotta quasi dell’80 per cento la diversità di specie. Questo è molto negativo perché al posto di quelle specie autoctone arrivano specie invasive, portate da fuori, quindi gli ecosistemi sono molto più poveri e omogenei. Ma c’è anche un altro esempio di grande rilevanza per la salute umana.
Quale?
Se devasti la biodiversità aumenti la possibilità che agenti patogeni attacchino l’uomo, che nascano zoonosi e pandemie globali. Questo perché gli animali si spostano ed entrano in contatto con zone antropizzate, e aumenta il contatto tra noi e quegli animali. È stato ormai certificato e quantificato che la perdita di biodiversità aumenta il rischio pandemico, il che ci è costato carissimo con il Covid. Le pandemie ci sono sempre state, dipendono da animali portatori di agenti patogeni, ma i dati ci dicono che dai primi ani Ottanta sono aumentate in modo esponenziale. Non può essere un caso, vuol dire che ci sono condizioni ecologiche di contorno che favoriscono le pandemie. Sono le nicchie antropiche che favoriscono gli agenti patogeni: la deforestazione, il commercio illegale di animali esotici, i wet market, le piantagioni, tutte situazioni in cui animali come pipistrelli, grandi scimmie, roditori, portatori di agenti patogeni, entrano più facilmente in contatto con l’uomo. La statistica dice che il rischio prima o poi diventa realtà, cosa ampiamente prevista e poi verificatasi alla fine del 2019.
È possibile intervenire solo a livello globale?
No, lo si può fare anche a livello locale. Sul piano globale sappiamo da dati molto attendibili, raccolti da Harvard e da altre università, che se passassimo dall’attuale 20 per cento di superficie protetta, tra aree marine, parchi, riserve e così via – in Italia siamo messi piuttosto bene, tra il 21 e il 22 per cento – al 30 per cento nei prossimi dieci anni, e fossimo poi così bravi da arrivare al 50 per cento nei prossimi venticinque anni, la perdita di biodiversità si interromperebbe. La mia non è una visione catastrofista, questo possiamo farlo, con regolamentazioni internazionali ma anche a livello nazionale e locale. Se a livello locale uniamo diverse aree protette l’effetto è moltiplicativo: è quel che vogliono fare in Trentino , dove c’è una situazione virtuosa, con le aree protette che sono quasi al 30 per cento. Se ci si riesce, si creano corridoi faunistici e le opportunità di avere biodiversità aumentano. C’è poi un campo nuovo molto promettente.
Ci dica.
È quello della urban ecology: anche in zone molto antropizzate, se riesci a creare rifugi, zone dove la fauna può trovare riparo, l’effetto è molto più importante di quello che si poteva pensare, per esempio per gli uccelli migratori. Anche in città si può fare tantissimo per difendere la biodiversità. È facile credere che la biodiversità sia soltanto nelle foreste, in montagna, nelle zone remote: in realtà è tutto attorno a noi, ce n’è tantissima anche nelle zone agricole e urbane. Questi interventi a favore della biodiversità vanno anche molto a favore della qualità della vita umana, diminuiscono la temperatura, combattono le bolle di calore che si formano nelle città.
I nativi climatici hanno la possibilità di combattere con successo questi fenomeni?
Secondo me sì. Lo stiamo vedendo in università: i ventenni che arrivano obiettivamente hanno un modo diverso di pensare e di ragionare. Chiamiamo nativi climatici quelli nati nei primissimi anni 2000: loro veramente in questo problema ci sono nati dentro, ne sentono parlare dalle scuole elementari e hanno maturato un approccio diverso dal nostro. Oscillano tra ecoansia, perché percepiscono la gravità del debito che stiamo scaricando su di loro, e pragmatismo. Sono molto orientati a trovare soluzioni. Stanno esplodendo finalmente le iscrizioni ai corsi di scienze ambientali, climate change, circular economy, quindi secondo me si sta preparando una generazione che affronterà il problema in modo diverso da come l’abbiamo affrontato noi.