14 Mar 2022

Il ritorno delle foreste

Il rimboschimento è la soluzione più attuabile e più economica per catturare CO2, e porta con sé numerosi benefici aggiuntivi. Ma attenzione a rischi e speculazioni.

intervista a Riccardo Valentini

In Italia ci sono vari progetti di riforestazione in atto, sia in zone urbane sia in aree rurali. Qual è il vero potenziale della riforestazione contro la crisi climatica?

La riforestazione ha un ruolo molto importante. Nasce soprattutto dall’ultima decisione della conferenza delle parti alla Cop26 di Glasgow, che se da un certo punto di vista può essere considerata insoddisfacente (in primis dai movimenti dei ragazzi, che chiedono scelte veloci e concrete), in realtà ha preso decisioni importanti.

La prima è la carbon neutrality. L’avremmo voluta dopodomani, ma non ce la faremo: è collocata a metà secolo. Tutti i Paesi hanno aderito, ma c’è una variabilità (l’India per esempio l’ha rimandata al 2070). Il dato più positivo è che se ne parla. Se non la raggiungeremo non riusciremo a stabilizzare l’aumento della temperatura a 1,5 – 2 gradi. La carbon neutrality è importante per le foreste perchè siccome ci saranno sempre delle emissioni, e si tratta di ridurre soprattutto quelle da carburanti fossili, significa assorbire CO2.

Questa è la nuova parola chiave che riguarda le foreste, che sono serbatoi di anidride carbonica e tramite la fotosintesi sono in grado di assorbire la CO2 in eccesso. Alle nostre latitudini una forseta oggi tipicamente può sottrarre dalle 10 alle 20 tonnellate circa di CO2 per ettaro ogni anno; a livello globale, circa il 30% delle emissioni viene assorbito dalle foreste. Certo, ci sono anche altre tecnologie che possono aiutarci, alcune sperimentali.

Per esempio?

In Norvegia c’è un impianto pilota per l’assorbimento di CO2 che cattura l’anidride carbonica attraverso grandi ventilatori che succhiano l’aria e diversi processi chimici. Ma si tratta di un impianto che al momento ha più una funzione di ricerca che di operatività, anche perchè il costo è di circa mille euro a tonnellata di CO2, una cifra molto alta considerando la quantità di tonnellate di CO2 che ci sono nell’atmosfera.

Un’altra strada consiste nello stoccare l’anidride carbonica negli impianti industriali sottoterra; è una soluzione che può avere i suoi effetti, anche se è molto costosa. Ma se mettiamo la CO2 sottoterra, chi ci garantisce che in futuro un terremoto non la rilasci nell’atmosfera? Comunque non tutti i siti sono idonei per questo tipo di stoccaggio e purtroppo la CO2 è un gas che definirei molto democratico, perché si trova dappertutto. Non è agevole raccogliere la CO2 e convogliarla in depositi localizzati.

In questo quadro, il ruolo del rimboschimento esce rafforzato?

A oggi le foreste rappresentano l’opzione più attuable, più facile, dai costi inferiori e forniscono anche benefici addizionali: sono fonte di prodotti legnosi, biomassa, migliorano il terreno, riducono l’inquinamento nelle aree urbane e migliorano il bilancio geologico, riducento l’erosione e rallentando le piene. Dove ci sono bacini forestali il tempo che intercorre tra la pioggia e l’evento di inondazione è molto più lungo e gli eventi sono meno intensi.

Le foreste rappresentano un valore aggiunto, catturano il carbonio e allo stesso tempo offrono preziosi servizi ecosistemici. Ecco perché oggi ritornano, non senza rischi, perché possono diventare oggetto di speculazioni e distorsioni. In particolare, il mercato dei crediti di carbonio cresce rapidissimamente, grazie anche al fatto che le industrie pensano di poter raggiungere la neutralità carbonica attraverso la compensazione delle foreste.

Questo è un aspetto che va affrontato con una certa prudenza: ogni operazione di carbon sequestration dev’essere rigorosa, certificata, validata. I modi in cui le foreste entrano nel sistema di assorbimento della CO2 sono tre.

Ce li descrive?

Il primo è la forestazione tout court, nel linguaggio dell’Onu il cambiamento di uso del suolo; su qualcosa che prima non era foresta, per esempio un terreno agricolo abbandonato, viene impiantato un bosco.
Il secondo è la vera e propria foresta già esistente, che tipicamente è gestita, selviculturale. Una foresta può accumulare CO2 per un lungo periodo di tempo, perché la sua vita si estende per molte centinaia di anni. Il picco della produzione primaria netta è attorno ai 100-150 anni, poi comincia un po’ a declinare. Il sistema di assorbimento va avanti per lungo tempo, è un investimento che ha un lungo periodo di ritorno.

Il terzo è lo stop alla deforestazione tropicale: anche questa è stata una dichiarazione di Cop26, non ancora una misura operativa. C’era stata anche nel 2013 a Parigi e non è mai stata implementata.
Ma la differenza è che Brasile e indonesia, che prima non avevano aderito, questa volta si sono associati, dichiarando di rinunciare alla deforestazione tropicale. Vedremo se questa scelta sarà implementata.

Bloccarla può ridurre sensibilmente le emissioni: la deforestazione oggi conta dal 10 al 20 per cento delle emissioni di gas serra a seconda delle stime, per il carbonio incide dal 10 al 12 per cento, se ci aggiungiamo gli altri gas serra per via indiretta si arriva al 20 per cento.

I tre processi entrano in modo determinante nel sistema di assorbimento della CO2. Quello che in Italia abbiamo più a portata di mano è la forestazione.

Quanto è grande il rischio che le nuove aree boscate non vengano gestite adeguatamente in futuro?

Come abbiamo visto, l’assorbimento di CO2 da parte delle foreste è facile, costa poco, ha tanti benefici e dura nel lungo periodo. Ma è proprio nell’orizzonte temporale che il carbonio può diventare vulnerabile. Nel caso della riforestazione, per esempio, è bello vedere che si organizza la giornata dell’albero, ma spesso dopo dieci anni tutti si sono dimenticati del boschetto piantato dai bambini e quegli alberi non ci sono più, per tanti motivi.

Dobbiamo passare dalla giornata di celebrazione dell’albero a un vero e proprio sistema razionale di gestione delle nuove foreste, e quindi mettere a servizio di queste operazioni di rimboschimento anche la manutenzione. Ci vogliono attenzione, protezione, controllo continuo, monitoraggio e una cultura nuova di rispetto del bosco, soprattutto se guardiamo alle zone di periferia che sarebbero adattissime per fare rimboschimento e assorbire CO2 ma sono quelle più vulnerabili all’incuria: dobbiamo fare entrare anche nella mentalità dei cittadini l’importanza di mantenere queste nuove formazioni di boschi. Conta anche la gestione di lungo periodo, quindi si devono privilegiare specie che possano avere lunghi periodi di assorbimento e una rapida ricrescita.

Ma cosa facciamo del fine vita di queste piantagioni?

Si può fare la scelta di avere delle specie longeve e accumulare poco carbonio sempre, oppure specie a rapida crescita, ma a un certo punto bisogna porsi il problema del fine vita: non si può pensare di mantenere una piantagione di pioppo per cento anni. A fine vita, se lo bruciassi o lo buttassi in discarica, se non facessi nulla, quello tornerebbe ad essere CO2 , e tutto il lavoro fatto sarebbe vanificato. La gestione del fine vita è quindi fondamentale nelle piantagioni a rapida crescita. Quando si fa la certificazione dei crediti, va assicurata in modo trasparente con impegni formali.

Come gestirlo dunque operativamente

Ci sono due fine vita importanti. Uno per la produzione di legname da opera, da costruzione, da pannelli, fino alle fibre tessili: sono le cosiddette nature based solutions, prodotti che hanno una stabilità e che permettono di dire ‘il carbonio catturato l’abbiamo stabilizzato’. Anche il biochar, una forma di carbone, rimane stabile per migliaia di anni ed è un modo per stabilizzare la CO2 .

L’altro è la prodizione di energia, che oggi ci offre nuove tecnologie. In Italia è sempre stata oggetto di barriere ideologiche, magari confondendo una piantagione con una foresta di un parco… Da una piantagine legnosa possiamo produrre anche biomassa per fare energia. Oggi ci si spinge anche verso frontiere nuove come l’idrogeno verde, che si può produrre anche dalla biomassa. È una tecnologia importante che permette di stoccare l’energia in maniera delocalizzata: in futuro l’energia potrà essere prodotta anche da una piccola azienda agricola.

Ma alla fine, prima o poi, la CO2 catturata nel legno viene rilasciata nell’atmosfera: qual è dunque il vantaggio?

Nel caso di un violino Stradivari, fatto con legni di risonanza di Paneveggio da 600 anni, parliamo di secoli di cattura, che sono quelli che ci servono per comprare del tempo per trovare magari nuove forme energetiche. Ma va chiarito che è molto positivo fare energia dal bosco, e questo al di là delle ideologie. Se quell’energia sostituisce l’energia fossile,quel che si fa è sostituire alle emissioni del gasolio o del carbone un bilancio neutrale: con il legno ho assorbito la CO2 e l’ho riemessa, quindi non ho toccato l’atmosfera ma ho prodotto l’energia che mi è servita. È chiaro che se invece di farne energia la biomassa la butto o la incendio senza scopo, allora il vantaggio non c’è più. Per questo è importante che chi fa rimboschimento dica esattamente cosa farà tra vent’anni con la biomassa, e lo certifichi. Altrimenti non dovrebbe ottenere dei crediti

Riccardo Valentini è professore ordinario in Ecologia Forestale presso l’Università degli studi della Tuscia. Insieme ad altri scienziati del comitato Intergovernativo sui Cambiamenti Climatici (IPCC), nel 2007 è stato insignito del premio Nobel per la Pace per le ricerche condotte sul cambiamento climatico.

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